Non capita spesso che all’investigatore privato Jean Fajean vengano affidati casi importanti, diciamo pure che non capita mai. Del resto, se il tuo settore è lo show business, il vero e il falso già fai fatica a distinguerli. Se poi il tuo luogo di lavoro è la vita romanzata degli artisti, se ficchi il naso nei mimi, nei cantanti, nei ballerini, nei maghi, negli illusionisti, l’essere nato credulone non ti aiuta. E’ vero, Fajean può vantarsi di aver smascherato un ventriloquo disonesto e un pigmeo, di aver smentito un rabdomante nascondendogli l’acqua sotto il letto, di aver sbugiardato un sedicente ipnotizzatore, al quale poi è bastata un’occhiata per convincere il giudice a denudarsi in tribunale. Ha persino trovato l’avvelenatore di Felipe, il giaguaro vegano del circo Palumbo. Ma anche così il suo curriculum rimane corto come il telegramma di un taccagno. Ad ogni modo la Mummia si fida di lui e lo ingaggia per recuperare i fondi pensione dei Titani nel Ring. La vita di questi vecchi lottatori è stata un calvario di match truccati e di sconfitte combinate a tavolino. Per anni hanno dovuto piegare la testa di fronte alle vittorie farlocche dei cattivi, decretate da un arbitro sempre corrotto. Unica loro consolazione era Amburgo e il punteggio che determinava la classe reale di ciascuno. Ma la pensione no, quella non si tocca. I sospetti della manovra truculenta ricadono su Goberti, cantante di Varela, impresario e padrone della notte. E dietro a lui, il potentissimo Lombardoni, Eminenza Marrone di ogni brandeggio in terra d’Argentina. Siamo nel 2001, il tango sta perdendo la sua innocenza per l’ennesima volta, Corrientes ha i prezzi di Broadway e le paghe del Paraguay, la valuta pregiata dei turisti scorre a fiumi nelle solite tasche. In un solo giorno di indagini, ma che dico, in una sola mattinata, Fajean scopre che i lavoratori del tango- show sono messi anche peggio dei Titani, sfruttati, umiliati, vilipesi, senza neppure un’Amburgo in cui redimersi. Mescolato alle maestranze di due troupe sovrapposte, l’investigatore soffre come la Storia nei tempi bui. Nemmeno la sua dimestichezza con le basse sfere dello spettacolo lo rende immune dall’esibita grettezza di Goberti, dalla sua concezione merdica del tango. Basta, deve uscire, ha bisogno d’aria vera, di tango vero, di una milonga vera, di una rissa amatoriale in un bar, di un mondo senza volontà e soprattutto senza rappresentazione. Sucher gli ha dato il numero di un vecchio milonguero che vive sotto copertura da quando ha spiattellato all’esterno i codici segreti della milonga. Il famoso scandalo che la stampa mondiale ha battezzato Milongaleaks. Nessuno sa il suo nome, ma le piste di Buenos Aires lo ricordano con un nomignolo che allude alla pesantezza del piombo. La scena ora si sposta a Barracas, dietro i muri alti di un ospedale. Il telefono squilla in una stanza foderata di materassi. All’accorato appello del nostro investigatore sta per rispondere un ricoverato chiamato El Moplo.
- Bip. Siete in linea con l’Istituto Psico-Assistenziale José Tiburcio Borda e in particolare
con La Quinta del Ñato, la milonga più esclusiva di Buenos Aires. Nessuno è ammesso.
In attesa di essere respinti dall’interno richiesto, vi suggeriamo di riattaccare subito per
non perdere la priorità acquisita. Per messaggi urgenti chiamate il numero 10, 9, 8, 7, 6,
5, 4, 3...
- Ehi ehi ehi, aspetti, sono Jean Fajean, mi ha dato questo numero Manolo Sucher.
- Jean Valjean, come i Miserabili? - chiese il telefonista riluttante.
- Sì, ma con la effe.
- Come i Fiserabili?
- No, come la futa que los fariò. Già contattare il famoso unicorno non deve essere uno
scherzo, ma qui si esagera.
- Cosa desiderate da me, signor forzato?
- Sono un critico di Mucha Lucha, sto scrivendo un articolo intitolato “Affinità e
divergenze tra i compagni del tango-show e noi”.
- E chi sarebbero questi noi?
- I lottatori, i Titani nel Ring...
- Qui dentro ne abbiamo due di Titani, ci fanno da guardapista, due ottimi elementi.
- Allora la fareste una chiacchierata con me? Sempre che vi facciano uscire.
- Se è per questo io ho la copia delle chiavi. Va bene, facciamo al Bar Británico, sezione
vermut, inteso come orario, ma anche come bibita. Portate dei soldi, che io bevo.
Come vi riconosco?
- Avrò un crisantemo all’occhiello.
- Molto appropriato. Ci vediamo stasera. 3, 2, 1 - e appese.
A San Telmo, dunque! Aspettai con successo il 29 che mi portò giù per Bolivar come un veliero in un torrente, raschiando via intonaci e balconi. Dall’incrocio con Indipendencia, camminai per qualche isolato e schivai almeno due mimi statici e una coppia di ballerini di horror folk. Il sole o chi ne faceva le veci stava già tramontando alla mia destra, nell’ora auspicata da Cinzano. Ero in pieno barrio di San Telmo. Cento ettari squadrati di fortezze colossali e superbe, tirate su dai viceré. Una trama di palazzi nobiliari e dimore patrizie, su rettifili assolati e piazzette cotonate dal vento. Certo la Proloco sapeva il fatto suo, nella scrittura dei pieghevoli. Il serpeggiare dei selciati andini, vicoli neri come gesuiti con la bibbia, nel cuore del più moderno e progredito antiquariato. Primatisti mondiali in teiere e posate d’argento, bric-à-brac coloniale, bibelot e porcellane inglesi, la refurtiva dei secoli. Eppure, nonostante i tango bar, il quartiere conservava qualcosa di sincero, la decadenza, i cenci, i miasmi del porto, la mugre dei risaliti alle dimore svuotate dalla febbre gialla di fine Ottocento. Duravano poco, allora, i patrizi. In pochi mesi emigrarono tutti nelle loro carrozze smaltate fino al Barrio Norte, fino alla più salubre Recoleta, lasciando lì soprattutto cucchiaini.
In questi ultimi anni il barrio era stato tanghizzato, al posto di Pirilo c’era il wine-bar El Escabio, in quello del Noble Repulgue il Negracha Disco Lounge. E al posto del palazzo degli Ezeiza, su cui un writer aveva scritto “Chi tocca questo edificio che lo squarti un fulmine”, c’erano le macerie di un incendio. Passai davanti al Dislivello e salutai Ruben con il gesto a rotolino di “ci vediamo dopo”. Ruben era un marcantonio con la faccia da cherubino. Quello di sinistra, nel poster di Raffaello. Aveva fatto il cinema, era stato Little John in Robin Hood e Ben Grimm nei Fantastici Quattro. E aveva fatto anche un po’ di wrestling col nome di Schopenhauer, ma era troppo onesto per perdere di proposito. Così, con i risparmi, aveva messo su quel ristorantino e sposato la partner di un mago. Facevano il numero dei coltelli e della donna segata in due. Poi un giorno il mago l’aveva rapita ed era scappato a Montegrande con due valigie. Io li avevo ritrovati. Sistemai il mago con un “chamuyo oportuno” e ricomposi i pezzi del matrimonio. A volte il lieto fine infrange le convenzioni del realismo. Da allora non potevo più passare dal Dislivello senza che Ruben mi facesse assaggiare una delle sue pietanze sperimentali.
Oltrepassai anche Plaza Dorrego e il balletto H24 dell’Indio. Accelerai ancora, a patacón
por cuadra, perché volevo prendere un buon tavolo al Británico, magari nell’ochava, in
modo da tener l’incrocio sott’occhio. A quell’ora il bar era quasi vuoto e l’anziano
cameriere aveva il suo bel daffare per non soccombere alle forze soverchianti dell’unico
avventore, cioè io. Mi pulì il marmo con quello che facilmente era un gatto morto e mi
portò un caffè nero a forza di ditate. Il Moplo arrivò quasi subito, in anticipo anche lui,
forse per scroccarmi più vermut. Aveva la faccia lunga come un pony, un riporto
cervellotico e un naso degno di lui. Il grosso labbro inferiore, umido e pendulo, sembrava
fatto apposta per inumidirci le marche da bollo. Deformazione professionale
dell’archivista, pensai. Indossava il doppiopetto color bitume dentro cui si era sposato,
aveva divorziato e un giorno l’avrebbero seppellito. L’abito di un uomo che non ne aveva
mai avuti due in una volta. Le scarpe, invece, erano delle abbaglianti caramelle di vernice,
annodate con i nastrini di seta nera incerati a mano, come si faceva ai tempi di Divito. I
fan di Pugliese usavano solo quelli.
Il Moplo si accorse che gli stavo guardando le scarpe e mi fece:
- Mai spirare miseria dai piedi, diceva Céline. E lo diceva anche Miguel Balmaceda. E’ dai
piedi che verrete giudicati.
Non dissi niente. Mi limitai a guardarlo scuotendo leggermente il mento, come Steven
Seagal quando sta per dirne una delle sue. Ma lui mi precedette:
- Chiedete con generosità, vi prego, e perdonatemi. Pensavo che tutto qui fosse
selvaggio e perciò volevo comportarmi senza contenzione. Ma chiunque voi siate in
questo incomprensibile deserto, non lasciate che il tempo scorra così in abbandono. Se
mai avete conosciuto giorni migliori, se mai siete stato guidato a una milonga dal suono
di un tango, se mai sulle ciglia avete asciugato lacrime, se sapete cosa sia un
abbraccio e cosa sia il riceverlo, la gentilezza sarà la mia sola forza necessaria. E con
questa speranza, arrossisco e rinfodero la spada.
Mi domandai cosa avrebbe risposto Steven Seagal. Io gli risposi per le rime:
- Come vi piace, signore. Anch’io deporrò le mie strampalate imprecazioni e regolerò la
mia pedanteria sulla vostra. Ma guardate questa camicia: un mondo troppo largo per
un cuore rinsecchito. E sentite questa voce, ridotta al falsetto, a una seconda infanzia
di puro oblio, senza denti, senza occhi, senza gusto, senza niente. Per cui vi esorto,
lasciate Shakespeare ai gentiluomini che stasera vi aspettano oltre quel muraglione.
Apritemi i forzieri della vostra sapienza prima che il vermut vi imbaldanzisca oltre
misura.
Il Moplo mi fissò in silenzio. Era anche strabico:
- Ma cosa è successo ai Titani? E’ per questo che voi siete qui, eh monsieur Fajean? La
lettera della Mummia stamattina.
- Sono stati raggirati. I fondi pensione sono spariti - annunciai.
- Non sono spariti. Eccoli lì - e indicò fuori, verso il parco.
- Ce li ha Pedro De Mendoza? Una statua? - lì fuori con il suo spadone di bronzo si
ergeva il mitico fondatore di Buenos Aires.
- Ma no - e abbassò la voce in un sussurro da cospiratore - Sono stati tanghizzati. Nel
tango è in atto una complessa operazione di branding per creare un marchio unico, un
ombrella brand. Un brand furtivo, non direttamente riconducibile a una certa azienda. In
questo senso il tango registrato, ombrellone furtivo, è un’astrazione estorta al
molteplice, una caricatura ideologica. Esagero? Non credo. Il capocordata è
Lombardoni.
- Non vi capisco. Spiegatevi meglio.
- Ricerche di mercato, ci ha conteggiato tutti uno per uno, stimati in valuta, pregiata o
nazionale. Ci ha fatto pedinare dall’agente in borghese dell’economia. Ha piantonato le
milonghe, tutte le sere uno in biglietteria. Di noi milongueros sa tutto, tranne ciò che è
vero. Noi Amburgo ce l’avevamo ogni notte: la Sacra Milonga in ultima ora, a porte
chiuse, c’eravamo solo noi. Ballavamo tra pari, ci capivamo. Tutte le eleganze, le
invenzioni, la bellezza, il lirismo, il tango che fioriva, la vita era lì, la musica si avverava
in noi.
- E poi cosa è successo? - mi ero messo a bisbigliare anch’io. Il vermut stava rilasciando
le sue terribili controindicazioni anche su di me.
- Abbiamo svenduto tutto, smerciato tutto, un occhiolino continuo alla clientela, gran
riverenze al dollarone, al turismo che inimica i popoli. Badate bene, il turista non si
accontenta più del fasullo, pretende l’imitazione del fasullo. Le panzane che non
abbiamo escogitato! Intere tradizioni confezionate lì per lì! Scaffali pieni di
componentistica, carriolate di stili, passi di ricambio. Tutto, pur di tirare su il morale al
visitatore!
Davanti al bar, intanto, si era fermata un’ambulanza. Ne era sceso un infermiere con una
pettorina gialla che cercò di guardare attraverso i vetri. In tanti anni, non era il primo che
ci provava. Il Moplo ormai si era lanciato:
- E’ un racket, una lobby, un’azienda municipalizzata con tanto di assessori, funzionari,
addetti stampa e ministri degli esteri. Sono in molti a mangiare nel piatto dove sputano.
I ballerini di adesso, tutti pragmatici. Di un pragmatismo marziale. Chi vuole essere
ancora un ripugnante idealista?
L’infermiere era entrato nel bar. Ebbi un brutto presentimento.
- Non voglio dire che sotto ci sia un piano, un New Deal. Per questo ci vorrebbero degli
strateghi, mica dei maneggioni. Ci danno dentro con la grancassa, fanno dello yo-yo, la
solita robetta, il marketing, le manfrine per i merli, che del resto ci cascavano già anche
prima.
Un secondo infermiere aveva raggiunto il collega. Dopo un breve conciliabolo, si
separarono e iniziarono la manovra d’accerchiamento.
- Il tango, come la poesia, come il wrestling, ha bisogno di oscurità, di ombra, di
penombra. Porte chiuse, tende tirate. Amburgo, Amburgo, un’Amburgo quotidiana. Le
forme vanno verificate. Questi riflettori sempre accesi sono l’imbroglio. I caroselli del
capitale.
Ormai gli infermieri ci avevano circondato. Avrei pagato per non sentire quella voce di
denti guasti:
- Eccolo qui il contessino milonguero. Ti aspettavamo in aula magna, per la conferenza
stampa. C’erano tutti i giornali del mondo, anche il Times di Londra. E tu te ne scappi a
San Telmo, vai a spasso nell’atmosfera. A elargire i tuoi pipponi ai cittadini inoperosi.
Il Moplo continuava imperterrito:
- La profezia di Borges. La malizia e l’infamia che nemmeno i bordelli sospettavano. Le
nostre gloriose medaglie sono diventate fette di salame!
Gli infermieri lo afferrarono per le ascelle e lo sollevarono di peso. Mi alzai anch’io:
- Ehi Cip e Ciop, mettetelo giù. Qui stiamo scrivendo un pamphlet.
La parola forbita non li confuse come speravo. Anzi, uno tirò fuori lo scioccastronzi.
- Stai buono, tu, scemo all’acquerello. Il tango non è mica morto, è la tomba che era
chiusa male. E questo non è un telepass.
Ora fu il Moplo a parlare. La sua dignità era indistruttibile:
- Signori, vi prego, lasciate che mi congedi da un nobiluomo con parole idonee al suo
rango. Parole titaniche, non so se m’interpretate. Il fiume del tango si troverà nuovi letti.
Ogni volta s’inalvea più in profondità. Ed è questo ciò che importa, non i nostri greti di
ciottoli.
- Ecco, il tuo discorsetto l’hai fatto. Questo vecchio deve avere delle protezioni in alto.
Perché ricoverarlo a spese dello Stato? Ai bei tempi bastava un Falcon verde del 74,
dieci centesimi di piombo e una spintarella. E tu Hemingway, il tuo pancake scrivitelo
da solo.
Uscirono in fila indiana, senza che nessuno sollevasse lo sguardo, proprio come ai bei
tempi. Per qualcosa sarà stato. L’ambulanza si allontanò giù per il Bajo costeggiando i
piloni di un’autostrada costruita in fretta per coprire una fossa comune. Me li immaginai
che accendevano la radio sulla 2x4. Non c’è niente come un tango di Varela per ricordare
quei bei tempi. Il che ricordò a me che quella sera avevo un appuntamento con Goberti al
Mister Tango. Solo allora mi accorsi del Falcon verde del 74 parcheggiato su Defensa,
dall’altra parte della strada. Non chiedere mai per chi viene il Falcon. Il Falcon viene
sempre per te.
Foto dell'archivio dei Titani, "Martín Karadagián alle corde (ma ancora per poco)".