La sera del 5 aprile 2001 un’ambulanza solca le stradine di San Telmo in direzione della City. La sirena è spenta e l’andatura placida come nel tango carcerario Araca corazón. Brutto segno, ma perlomeno il ventaccio che da qualche giorno infuria sulla città delle buone arie, tanto sui rei come sugli incensurati, sembra aver sospeso le attività estrattive dal passeggio notturno. Finisce un altro memorabile giovedì e tutt’intorno fremono le consuete abitudini dei terrestri. A bordo della bianca astronave c’è un passeggero che ascolta religiosamente Radio Colifata. Sono le 21 in pacca, l’ora sacra di “Balliamo beati con Osvaldo Pugliese” e niente al mondo, nemmeno le manette che lo avvincono al cruscotto, farà perdere all’investigatore Jean Fajean una sola tanda dei suoi disc-jockey preferiti, gli spin doctor manicomiali Tj Locatelli e MC Ningún Bobby. I due infermieri che invece l’hanno ammanettato sono ex operatori dei servizi clandestini della giunta militare. I sequestri e le torture vengono loro naturali, ma sono troppo abietti per lavorare persino in polizia, come tanti loro colleghi più furbi o più ammanicati. Questi due brutti scagnozzi hanno rapito anche il Moplo, dopo averlo paralizzato con una camicia di forza e tacitato con una mordacchia. Ora lo detengono lì dietro, su una barella. Quel che cercava è il suo quaderno nero, pieno di nomi e di numeri preziosi, che invece il detective ha nascosto nella biblioteca del Bar Británico, tra gli eroi e le tombe di Ernesto Sabato. Abbagliati dallo zelo dei servitori e da una copertina ugualmente nera, hanno confiscato la Guida Sentimentale al Tango che Jean Fajean ha appena acquisito dal più elegante imbonitore del Mercatone. “Filosofia. Quel che ammazza il tango è la filosofia”, commenta un infermiere, sfogliando il volumetto. “Specie l’ontologia. L’essere in quanto tale”, glossa l’altro. Ora l’animo mi porterebbe a esporre le cause di avvenimenti tanto gravi, per chiarire cosa abbia spinto all’azione i Titani e cosa abbia scrollato via la pace dal mondo del tango-show. Ma gli eventi precipitano e al nostro investigatore resta poca mina nella matita. Meglio allora salire a bordo dell’ambulanza e farci portare con lui all’appuntamento che il destino sincronizzatore gli sta preparando. Così intanto ascoltiamo la trasmissione della Colifata. Un tango venerabile è arrivato al suo chan-chan. E sta per prendere la parola Tj Locatelli.
- Oh, avere un’altra musa di fuoco con cui ascendere al cielo più luminoso della
fantasia, un regno per palcoscenico, principi per musicisti, monarchi e regine a
danzare sulla pista ingigantita. Con un altro Pugliese come questo, il tango
assumerebbe il portamento a lui consono, e fama e prestigio e onore gli
striscerebbero ai piedi chiedendo impiego e guinzaglio. Dico bene, Bobby?
- Come un libro stampato, Locatelli, anche se un solo grammo d’oro mi
convincerebbe più di un predicatore su una zattera. E a proposito di zattere,
state ascoltando Radio Colifata, la radio comunitaria dell’Istituto Psico
Assistenziale José Tiburcio Borda. Vogliate perdonare, voi che pur accordate il
vostro fervore a questo nostro armeggio, gl’ingegni che hanno l’ardire di stipare
tanto soggetto in una radiolina di bachelite. Il tango che avete appena ascoltato
si chiama "A mis compañeros” e lo dedichiamo alla giusta lotta dei Titani nel
Ring. Tenete duro, ragazzi, tutto il Borda è con voi.
- E soprattutto forza Mummia! Il prossimo tango, invece, lo vogliamo dedicare a
un nostro compagno di sanatorio, un lungo-degente che non sappiamo più
dov’è. Potranno mai i solchi di questo vinile contenere gli alisei che mossero i
vascelli di Avellaneda? Riuscirà il rapsodo Alberto Morán a cucire assieme
anche solo i canti che intenerirono i cuori di Balvanera, Almagro e Puente
Alsina? Lo sapremo presto. Radio Colifata. Balliamo beati con Pugliese! Moplo,
torna a casa! Tutto è perdonato!
Mi girai a guardare il mio compagno di prigionia. Gli si era spostata l’acconciatura
e aveva gli occhi umidi. C’era poco da fare, al milonguero onesto bastavano due
note di Pugliese e il suo cuore si apriva come uno sportello. Eravamo ancora ricchi
di qualcosa che ci faceva piangere ascoltando Los Mareados. Le lacrime forse non
erano un buon giudizio: eppure mi sarebbe piaciuto sapere che cosa in futuro
avrebbe potuto far piangere un uomo di quaranta anni, che tanti allora io ne avevo.
- Te lo dico io cosa ti farà piangere tra poco, Fajean - interferì con i miei pensieri
l’infermiere dal fiato monsonico.
- Fammi indovinare, Superciuk - risposi - abbiamo una destinazione o vi siete
persi come cani tra le bocce?
L’ambulanza, intanto, stava attraversando una City deserta e spettrale. Le finestre
alte di Philip Larkin non comprendevano altro che buio, mentre giù dabbasso la
miseria passava di mano in mano nel silenzio dei computer.
- E spegni questa lagna! - mi ingiunse l’autista che fino a quel momento aveva
praticato il mutismo. Poi eseguì lui stesso l’ingiunzione.
- GRRRR! - ruggì il Moplo, che se gli toccavi Pugliese ti ammazzava sul posto.
- Sta’ buono, deficiente - lo ammonì quell’altro - Tanto siamo arrivati.
L’ambulanza si era di nuovo tuffata nella luce della civiltà. Dietro il mio finestrino
adesso scorreva il diorama di Avenida Quintana, le vetrine del lusso, l’illuminismo
delle merci incandescenti, lo spettacolo baluginante della vita irraggiungibile.
Svoltammo in un vicolo dietro l’Hotel Alvear e parcheggiammo tra i puntelli del
fondale. L’autista mi fece scendere e condivise le mie manette con il suo polso. Un
gesto di solidarietà che non mi aspettavo. L’altro infermiere ne approfittò per una
pausa sigaretta e per recare danno al Moplo con il fumo attivo. Il mio nuovo
compare mi spinse attraverso un corridoio ingombro di spazzatura in sacchi.
Sbucammo in una cucina grande come una cattedrale, dove stava lavorando una
brigata di almeno venti professionisti, dagli chef ai garzoni, ciascuno con il
cappello tubolare che contraddistingue questo lavoro da tutti gli altri. Dalle
impiattature immaginifiche dedussi che ci trovavamo in un tempio dell’alta cucina,
anche se poi in un angolo vidi un commis che si rinfrescava i piedi nella salsa
criolla. La lotta di classe passava anche da queste piccole iniziative, pensai. Dalla
porta che conduceva al salone provenivano i suoni celestiali del privilegio, il
tintinnio di posate e cristalli, il mondo ovattato che i milioni possono comprare. Ma
il mio congiunto mi strattonò verso un ascensore di servizio, pieno per metà di
tovaglie sporche come il demonio. Salimmo di molti piani senza dirci una parola di
conforto. Il corridoio che ci aspettava era ampio e silenzioso, illuminato e arredato
secondo i canoni del buon gusto internazionale. C’era dello studio, dietro quelle
applique, dietro quei vasi Ming, quei parati a fiorellini, quelle porte intagliate alla
Paternal. Ci fermammo davanti a una di queste. Non disturbare, diceva un cartello
bilingue. Ma noi un buon motivo per farlo ce l’avevamo: toc toc, bussammo in una
lingue sola. Qualcuno ci ammise dentro senza neanche chiederci la parola d’ordine
ed eccoci là, i gemelli siamesi della manetta. Anche la suite obbediva agli stessi
criteri del fuori, comfort a palate, ma senza strafare. Ah, che bella tinta il giallino.
Due uomini sedevano sul divano. Un altro, quello che ci aveva aperto, se ne stava
appoggiato a una parete. Nessuno diceva niente, tutti aspettavano.
- Beh, allora ragazzi, adesso vogliamo ritornare in sé? - proposi tanto per rompere
il ghiaccio.
Un suono riconducibile allo standard internazionale preannunciò l’uscita dal bagno
di un uomo autorevole, in maniche di camicia. Aveva l’aria infelice e lo sguardo
freddo e acuto come gli spigoli di una valigia. Si sedette dietro alla scrivania di
vetro. Nemmeno lì recuperò il buonumore.
- E’ questo? - chiese all’infermiere.
- Sì capo.
- E toglietegli i braccialetti, cazzo! Lei si sieda qui, Fajean - ordinò, indicandomi la
poltrona davanti alla scrivania - Lei sa chi sono?
Espressi un diniego panoramico.
- Ma che bel detective! Diglielo tu chi sono, Facundo - disse rivolgendosi ancora
all’infermiere.
- Sua Eccellenza Ermete Lombardoni, Segretario alla Cultura.
Sull’avambraccio gli lessi un tatuaggio latino che lo confermava: Homo Sine
Pecunia Imago Mortis.
- Mi aspettavo un ufficio proporzionato al suo rango, Lombardoni, un palazzo di
marmo, degli uscieri, delle segretarie pettorute…
- DOTTOR Lombardoni, qui siamo tutti dottore, come al parcheggio. Ad ogni
modo risparmieremo del tempo, Fajean, se le esporrò con chiarezza quello che
penso. Lei si sta intromettendo nei miei affari. E se non m’inganno, mi
ripropongo di impedirglielo.
- Non conosco a sufficienza i suoi affari per intromettermici, dottore.
- Non sono d’accordo. Ad esempio, lei ha un quaderno nero che mi appartiene.
- L’ho trovato io, capo - disse Facundo, porgendo trionfalmente la mia Guida
Sentimentale al suo datore di lavoro.
Lombardoni sfogliò il volumetto, sospirò e cercò in me consolazione per
l’inettitudine dei suoi collaboratori.
- Non mi guardi così, lo so già: la filosofia ammazza il tango, specie l’ontologia.
Ma al giorno d’oggi, senza una filosofia, nessuno osa nuocere al mondo.
- Facundo - disse pacatamente Lombardoni - tu sei un bravo spione, hai studiato
tortura con gli americani, sei un campione in sequestro e picana, non te la cavi
male nel fox-trot, ma sei ignorante come una grondaia. Vai giù da quell’altro
coglione e vedete di farmi cantare il Moplo.
- Il problema è più farlo star zitto, capo. Comunque: conforme! - e lasciò la
riunione rosso in faccia per il cicchetto.
- Lei Fajean è un patriota? - mi chiese Lombardoni.
- La mia patria è il mondo intero, il mio nome è libertà - declamai - In Argentina
anche il nazionalismo viene da fuori. Per cui tanto vale rimanerci.
- Noi invece abbiamo un grande progetto per il nostro paese, un grande sogno.
Fondere la marca Argentina con la marca Tango e attirare qui tutti i consumatori
di tango del mondo. Il tango deve diventare per Buenos Aires quello che il
carnevale è per Rio. Il mercato ci sta già applaudendo con le sue mani invisibili.
- Ovviamente non è colpa sua se gli interessi dell’Argentina coincidono con i suoi,
giusto? - insinuai.
- Lei avrà letto Debord, la Società dello Spettacolo e ancor meglio i Commentari.
Quelle idee non sono state usate dai ribelli di tutto il mondo, ma da noi, i
supermercati. Oggi vendiamo blocchi di tempo completamente equipaggiati:
habitat spettacolare, consumo, socievolezza, conversazioni appassionanti,
incontri con personalità. Chi governa lo spettacolo regna sull’energia dei ricordi.
E allontana il presente a distanze favolose, incolmabili. Noi possiamo eseguire
ovunque le nostre sentenze sommarie.
- Sì, me ne sono accorto. Ma il vostro show integrato non resisterebbe una sola
settimana senza l’aiutino delle squadracce del reale, cioè degli sbirri.
- L’arte non può più fallire, Fajean, né portare oziosamente il lutto della sua
impotenza. Deve rientrare nell’azione sociale, politica, economica. Il tango deve
dimostrare la sua efficacia, la sua redditività. Deve smetterla di indulgere
nell’allucinazione di un’impossibile autonomia. Benjamin, Adorno, non ci
avevano capito un cazzo.
- Rientri nei gangheri, Lombardoni. Tanto per cominciare il tango le sue
retrocessioni se le è sempre guadagnate sul campo. Non ha mai avuto bisogno
delle vostre peggiorie per fare un audace passo indietro, o per produrre artisti
idonei alla vostra realtà merdosa.
- Ah Fajean, lei m’intenerisce il cuore. Non appena riusciamo a convincere quei
testoni dell’Uruguay, l’Unesco ci darà il suo benestare e il tango diventerà
immateriale e, puf!, lo spariamo come su per un tubo nel Pantheon delle merci
perbene, delle merci pulite, dei valori astratti, intoccabili, garantiti. L’oro dei
cinque continenti! Onore planetario e condono tombale di tutte le magagne.
- Come se gli affari avessero bisogno di pezze d’appoggio culturali. E non di un
quaderno nero pieno di nomi e di numeri - gliela lasciai cadere così, senza
rancore.
- Quindi lei l’ha visto. Quel quaderno appartiene a me, il Moplo me l’ha rubato.
Da un cassetto prese un telecomando, accese il televisore a cristalli liquidi e
riavvolse un nastro VHS. Nel fermo immagine comparve un volto tumefatto, occhi
pesti, guance sanguinanti, labbra gonfie. Solo i capelli imbrillantinati col bitume
non si erano mossi.
- Ho un testimone - disse freddamente Lombardoni - Lo riconosce? Ascolti la
voce.
Il sangue mi si gelò ovunque circolasse in quel momento. Certo che la
riconoscevo, quella voce da bisca, da ippodromo, da lotto clandestino. L’amico
della Mummia, il grande Jorge Vidal:
- Con il lungo Pantaleone, Peppino, il Moplo, il Pelato, Tito e Ramón, usciamo con
l’intenzione di andare a un ballo pericoloso in beneficio di un galantuomo che al
momento è al gabbio di Devoto per una questione di furto. Il ragazzo è di buona
famiglia, solo che c’ha un inconveniente, è collezionista di galline. Al buffet delle
bibite vado io con Tito e il Pelato, che già era mezzo muto per la sbronza che
c’aveva, e proprio lì incontro un tipo che beveva che dava gusto. C’era anche il
chitarrista Augusto e Grilletto e Caffellatte e il Sordo, anche lui a bere come da
un rubinetto. Questo qua è sempre ubriaco e pensare che è nato alla centrale
del latte. Per quel che riguarda l’ambiente femminile, c’erano le ragazze di
Mendieta, la Pannolino, la Pugnetta, la Cina, la Picciotta, la Rondinella, quella
ficcanaso di Encarnación, la Cicciona del casermone, quella della pugnalata,
Sara la Scorciatoia e la Parda dello Stradone. Un livello abbastanza abbastanza
da sporcaccioni, diciamolo pure. E nel ballo, dai e dai, le storie si facevano pese
e tra scontri e giravolte la milonga era un tumulto. Una ragazza mezza sbronza
che ballava con un pivello, al Moplo gli ha spiaccicato propriamente il ditone che
se Santillán non s’intromette il Moplo le dà un cazzotto. Però, vedete, al Moplo
gli pestano sempre il ditone, anche perché ha un ditone grande come una
cotoletta. Il pivello vuol fare il dritto e gli dà una mazzata al Moplo che lo
schiaccia come un rospo sul pavimento. Interviene la Pannolino per sistemare la
questione, il piccoletto scappa in un angolo, ma Pantaleone lo demolisce con un
diretto. In un secondo scoppia la rissa, pugni, calci, sedie rotte. Santillán spara
in aria con un ferro che si era portato, la gente che scappa da tutte le parti, la
casa rimane pelata e per finire la serata, io mi imbosco un bandoneón, il Moplo
si frega un impermeabile e il Loco una faccia gonfia.
Alla fine del nastro, Lombardoni sorrise come una iena:
- L’impermeabile che si è fregato il Moplo era del mio contabile. Quel disgraziato
seduto lì sul sofà, con la faccia da fesso e da cretino. Talmente fesso e cretino
da andare a un ballo nei bassifondi portandosi in tasca il MIO quaderno nero!
- Facciamo un patto, Lombardoni - fu il mio turno di sospirare - A me non
m’importa nulla dei suoi affari, ma sì dei miei clienti Titani. Quel suo uomo di
paglia, parlo di Goberti, ha fatto sparire i fondi pensione dei lottatori. Immagino
che lei possa convincerlo a restituirceli, come io convincerò il Moplo a restituirle
il quaderno.
Guardai l’orologio. Erano quasi le undici. Facevo ancora in tempo a fermarmi al
Británico per recuperarlo e a andare all’appuntamento con Goberti.
- I fondi pensione Goberti me li ha dati in deposito, perché vorrebbe diventare mio
socio - disse Lombardoni - Vorrebbe. Per me è solo un peso, un pagliaccio
imbarazzante. Il tango-show è morto, signor Fajean. E’ alle milonghe che
bisogna puntare, è lì il fuoco della vita. Affare fatto, ci vediamo fra due ore al
Mister Tango.
Mi ripresi la mia Guida Sentimentale e me ne andai con passo ontologico.
Questa volta presi l’ascensore padronale e l’uscita su Avenida Quintana. Poi girai
intorno all’isolato. Gli sportelli dell’ambulanza erano spalancati come un cuore
milonguero sullo splendore della musica. Gli infermieri erano stati spalmati per
terra come formaggini, il Moplo era libero, al volante c’era il Vasto Pucelli e
accanto a lui la Mummia. Un gruppetto di Titani stazionava lì nei pressi. Anche da
lontano si vedeva che vibravano all’unisono con il tango di Radio Colifata. Sì,
come detto eravamo ricchi di qualcosa che ci faceva piangere ascoltando Los
Mareados.