Dietro il titolo flaubertiano, per chi non avesse individuato le tracce che lo scoprono, si seminasconde un personaggio per cui non sembra fuori luogo l’etichetta di eminenza grigia del tango, virata all’alba di questo terzo millennio in quella di Patriarca, visto che i settanta avevano fatto sentire da qualche anno il loro allarmante rintocco. Sto parlando di Emilio Balcarce, violinista riservato, alla bisogna agile bandoneonista, parco quanto ispirato compositore, generoso arrangiatore di solida scuola marca Josè Ehler. L’avara magrezza del suo profilo biografico sfiora il cliché condiviso con tanti altri musicisti dell’enclave tanguera, tanto da ridurre le informazioni su di lui a brevi note, sia in rete che fuori rete, ovvero nel corpus saggistico in materia che lamentiamo troppo spesso superficiale, seppur in qualche modo famoso o famigerato. A questa distrazione, lacuna, sordità, di fronte a un musicista di importanza sostanziale, si può in parte rimediare osservandolo non tanto con il calendario alla mano per seguirlo nelle sue peregrinazioni curricolari, bensì con l’attento ascolto delle registrazioni fonografiche che lo riguardano, se non addirittura con il pentagramma sotto mano. Detto questo va puntualizzato che se l’aspetto inerente alla sua attività di strumentista è sicuramente attinente alla disciplina del gioco di squadra piuttosto che a quella acrobatica dei primi violini/bandoneones, il lavoro di arrangiatore e di compositore ha lasciato segni tuttora vivissimi, agendo nei pensieri e nelle tecniche dei suoi giovani colleghi di oggi. Tralasciamo quindi l’età della formazione, con tutta una varietà di sedute tra le file dei violini di orchestre illustri, e il capitolo seguente come ineccepibile direttore delle nascenti orquestas de cantores, trascinate dalla popolarità dei cantanti a successi che lo stesso Balcarce ricorda piramidali: “en la época que yo dirigí la orquesta de Alberto Castillo era una barbaridad. No se podía entrar a los clubes, la gente como estaba agolpada e la entrada. Tenían que ayudar las policías para que pasáramos con los instrumentos, contrabajos por arriba. Era una locura ¿”. Iniziamo quindi spiandolo da quando giunge nella fila composta insieme a Enrique Camerano, Oscar Herrero e Julio Carrasco. Siamo nel 1949 e Balcarce ventinovenne sceglie di arruolarsi alle dipendenze del Santo materialista (ma tutt’altro che “facinoroso”, direbbe l’inventore di questo aggettivo, Bruno Barilli). Si tratta evidentemente di Osvaldo Pugliese con cui il violinista inizierà a scrivere brani e arrangiamenti subito dopo il suo ingaggio. Il suo primo arrangiamento è una prova del fuoco brillantemente superata: La rayuela di De Caro, ma da un rapido scrutinio dei preparati, emerge che il suo debutto nella doppia veste di compositore/arrangiatore avviene con il tema Bien Compadre che lo seguirà in tutta la carriera, rielaborato in ogni occasione con una nuova orchestrazione e altri dettagli coerenti con le necessità differenti in tema di stile. L’arrangiamento per la formidabile scuderia di Pugliese ha i colori della bandiera evoluzionista, evidenziando come la voix du coeur dell’autore abbia già una perfetta padronanza filologica del linguaggio pugliesiano.
Sottolineo tre passaggi in cui la mano di Balcarce è particolarmente deliziosa. Il primo riguarda la frase dei bandoneones che inizia dopo un minuto e tre secondi dall’inizio, a cavallo tra la battuta 32 e 33, dove il trattamento ritmico, la densità dinamica, l’accentazione, ci rimembrano la fratellanza di Pugliese con lo stile di Alfredo Gobbi. Il secondo riguarda la bellezza della tessitura con cui la fila di violini accompagna il solo che Enrique Herrero inizia intorno al minuto e quarantacinque secondi, con quel suo fraseggio unico valorizzato da un suono così intensamente espressivo da consigliare un divieto ai minori:“…parecía que le estaba haciendo el amor a una mujer...cuando tocaba los solos" (Balcarce dixit). Il terzo giunge nell’accompagnamento della variazione finale di bandoneon, suddivisa in due frasi collegate da un guizzo del pianoforte e accompagnata con un marcato rilassato e penetrante per cui mi sento di spendere la parola magica: swing!
Tre anni dopo il Balcarce compositore si perfeziona ulteriormente dando alla luce un tango che resterà nella storia nella ristretta lista dei più riusciti della decade del ’50, radunando tutto quello che lo farà riconoscere come Maestro. Il titolo è Si sos Brujo e Balcarce arrangia meravigliosamente per Pugliese, con tutte le sfumature dalle esplosioni formidabili ai sussurri più intimi. L’orchestra ne registra una versione prodigiosa che precisa chirurgicamente la perizia contrappuntista attentamente meditata nell’arrangiamento. Ben inteso che anche in quel caso i musicisti si sono dovuti attenere alla indispensabile licenza di inserire tutta una collaudata serie di preziosità, impossibili da definire in partitura poiché estranei al sistema di scrittura convenzionale. Per raggiungere questa perfezione di respiro empatico, ci sono solo due ricette. Escludendo la prima che ci introdurrebbe nella regione irrazionale dell’esoterico, la seconda è quella giusta ed ha una valida che non ha scadenza e neppure confine: tanto lavoro preparatorio, prove, prove, prove, come del resto conferma Balcarce: “en aquella época se ensayaba de una manera increíble. Antes de poner una cosa al público, de dársela al púbico ya la sabíamos de memoria. No teníamos que leer ni nada. De tanto que la ensayábamos. A quell’epoca un severo calendario di prove precedeva il lavoro notturno, gli appuntamenti radiofonici e le registrazioni discografiche che testimoniano il livello “berliner” di tutte le migliori orchestre di tango. A onor del vero, tra queste mi sento di comprendere anche quelle che, alla Arbasino, manderei “illuministicamente a quel paese”, perché compromettono la mia ecumenica tolleranza, costringendomi a fare le pulci all’impostazione del loro lavoro dal punto di vista musicale ed estetico. Senz’altro, tra queste ultime, nessuna ha deciso di inserire in repertorio un brano così complesso come Si sos brujo che invece ha attirato la crème de la crème e a questo proposito va citata la versione che non è quella di Pugliese, ma di un’altra Università del tango. Parlo dell’orchestra diretta da Alfredo Gobbi, che è ancora una fonte di piacere ed ispirazione per tutti i musicisti di tango.
La sua versione di Si sos brujo nell’arrangiamento di Balcarce, arriva circa un anno dopo a quello che il violinista aveva creato per Pugliese, mettendo in evidenza come “había que adaptarse al estilo del conjunto”, alias come utilizzare gli elementi caratterizzanti l’estilo di un’orchestra, e contemporaneamente rinunciare ad altre risorse del linguaggio che abitualmente sono estranee a quello stile. Balcarce racconta in un’intervista come sia con Gobbi che con Pugliese, il lavoro procedeva partendo da alcuni desiderata preliminari dei committenti. “Acá me gustaría hacer esto así”, “esta frase quiero que la haga el bandoneon”, e così via. Per esempio, Gobbi ha chiesto una variación corrida de bandoneon a fraseggio staccato, per le 10 battute conclusive a todo trapo, mentre l’apoteosi dei violini tutti ricama sotto il solista suonano la melodia con fraseggio legato, una melodia che sempre i violini avevano appena esposto. Invece, contrariamente al solito, Pugliese aveva preferito una conclusione con un paesaggio sonoro diverso, dove quella stessa frase che Gobbi ha ripetuto due volte, la prima volta solo i violini, la seconda sotto la variazione di bandoneon, viene esposta tre volte con il primo violino protagonista nelle prime due e i violini tutti nell’ultima. Balcarce in questo caso è geniale perchè reiterando la stessa frase in maniere sempre diverse, ci insegna quante combinazioni diverse si possono decidere partendo da una semplice linea melodica. Le tre che sceglie non sono le uniche possibili ed inoltre, la loro declinazione influisce anche sulle tipologie di accompagnamento che sono pensate per sottolineare il fraseggio del solista.
Nonostante questo e altri splendidi lavori che in quegli anni contribuiscono alla continua evoluzione della maquina tanguera di Pugliese, per Balcarce quel grande momento che vale una carriera e un posto nel Parnaso del Tango, arriva nel 1958: scrive La bordona che sarà tra i tangos più vicini al verosimigliante identikit del tango moderno e contemporaneo. La sua costruzione melodica, seppure contenuta in una struttura bipartita come d’uso, esce spavaldamente dai confini ristretti e ben presidiati del tango tradizionale, regolati di prammatica con il modesto criterio della domanda e risposta. Aprire le porte a queste inedite complessità compositive ha introdotto una nuova luce e quindi nuove prospettive, restando fermamente nel terreno consolidato del linguaggio che i conquistadores indemoniati Piazzolla e, soprattutto, Rovira forzavano senza scrupolo. Dalla seconda metà degli anni cinquanta questa circostanza ha visto un’accelerazione significativa che si è ripercossa sugli arrangiatori/orchestratori impegnati a misurarsi con questo genere di materiale, Balcarce compreso. Lui probabilmente non lo poteva sapere e forse non era particolarmente interessato a suscitare osservazioni di merito come questa che sto cercando di argomentare, al punto che ho la tentazione di inventare per la sua magnifica La Bordona, la categoria di capolavoro involontario. Tutto farebbe pensare che Balcarce abbia trovato l’ispirazione per realizzare questa pagina, risalendo agli archetipi del tango, quando una striminzita chitarra accompagnava i poveri versi improvvisati dei payadores, chanson de geste la cui genesi gauchesca e criolla elettrizzava Borges. In quei tempi eroici, le corde più gravi della chitarrina, soprattutto la sesta, surrogavano uno strumento che il tango stabilizzerà trent’anni dopo: il contrabbasso. Lo faceva disegnando quello che si chiamerà bordoneo, vale a dire povere sequenze armoniche sul ritmo della milonga campera. Ma La bordona di Balcarce contiene altro e più precisamente un sabor di riferimento etnomusicologico che ritroviamo esplicitamente nel titolo di un suo tango registrato con Pugliese nel 1964: Norteño. Lo confessa l’autore: “…pienso que la Argentina no es Buenos Aires solo. La Argentina es grande de norte a sur. Y entonces eso a mí siempre me gustó y me pareció... que servía para expresar nuestros tangos. Y... este, lo puse. Por ejemplo, La Bordona tiene un momento que... pum, unos pasajes. Tengo el tango norteño que tiene un sabor medio..., tiene sabor,... de la gente del norte, de la música norteña. Pero siempre pensando en el tango y como es argentino merece que se tenga en cuenta, creo”. La Bordona quindi stravolge la leggerezza imprudente della milonga suggerita dal titolo, includendo un’ereditarietà norteña che l’autore fa defluire con naturalezza biologica, unendo due parti strutturate attraverso un’infallibile “melodrammatizzazione”, (termine che mi ha prestato la lettura di Gramsci, ma qui utilizzato con scopi d’elogio). Con queste prerogative e tutte le incognite sul successo che avrebbe potuto riscuotere un brano così impavidamente innovativo, La bordona ha iniziato la sua fortuna con le due prime incisioni, entrambe del 1958. Curiosamente il brano non è nelle corde di Pugliese e il giudizio sembra irrevocabile: “es lindo, pero usted tendría que hacer tangos como los otros suyos: bien compadre, si sos brujo”. La frustrazione dura poco, fin a quando al Café Parana in Corrientes il violinista ha modo di proporre il suo tema a un’altro direttore, sublime anch’esso: Anibal Troilo. Il terribile censore getta la spugna, cioè la matita e la gomma, come racconta Balcarce che in precedenza non era passato indenne dalle censure di Troilo: “en lo que no me marcó fue en “la Bordona”, no. Me dijo: “usted ya sabe que tiene que hacer en la bordona”, me dijo.lo escuchó bien todo, tocado por Berlingieri, y entonces...le digo vamos a marcar lo que quiere y dice: “no, usted ya sabe lo que quiere hacer hágalo como a usted le salga”. Come sempre Pichuco aveva ragione e forse proprio con l’inattesa arrendevolezza dimostrata con Balcarce, inaugurava il suo terzo stile che è il late style mantenuto fino alle ultime registrazioni quasi esclusivamente strumentali.
L’incisone di Troilo è tanto formidabile da far cambiare opinione a Pugliese cambia opinione e Balcarce è messo al lavoro per preparare l’arrangiamento che registrerà tre mesi più tardi. Per la cooperativa orchestrale di Pugliese, alcune soluzioni sono completamente riviste rispetto a come erano state servite a Troilo, secondo il precetto che l’arrangiatore deve avere un’anima dai riflessi multipli per “adaptarse al estilo del conjunto”. Le nuove idee musicali sono mulinelli in evidente coerenza con l’anamnesi dello stile ardente del suo direttore, ben oltre ad un elegante esercizio di retorica musicale. Balcarce distilla elastiche sequenze di sapienza gnomica che riverberano questo arrangiamento all’altezza dei miracoli dello spirito. La bordona di Villa Crespo ha un ritmo più brioso rispetto a quello di Troilo, in alcuni passaggi sembra fermare il fiato, in altri lancia brucianti accenti che pungono come spilli dorati. Poi le audacissime seconde, oso dire raveliane; quella preparazione alla enigmatica modulazione in Mi minore; quel barro prescritto da Piazzolla come essenza tanguera di una sonorità sucia e quel non so che, definito sempre da Piazzolla, con la mugre: quanto basta per sottolineare il temperamento dell’orchestra. Tutte mercanzie di haute couture che scarseggiano anche nelle migliori boutique del genere. Un ascolto comparato con la versione troileana mette in risalto differenze imprevedibili che scaturiscono da rivisitazioni della melodia, da nuove nouances tra i timbri sonori e le loro dinamiche, da incalzanti pulsazioni ritmiche che sono soggette a multiformi metamorfosi, ed uso queste metafore in mancanza di un vocabolario della Crusca dove senz’altro scoprirei locuzioni più adatte. Ma è già qualcosa, di fronte all’abuso di due termini orrendi, ricorrenti nel tentativo di descrivere con le parole la musica di Pugliese: energia e musicalità.