Nell’idea di raccogliere una documentazione plausibile sulla scena del tango contemporaneo, sia nella sua attualità sia indicando le tappe del percorso musicale indispensabile al configurarsi di questo scenario, un capitolo interessante riguarda lo sviluppo che questa musica ha avuto nel mondo. Dico questo perché l’intervento odierno lascia Buenos Aires e gli approfondimenti che stanno ricostruendo una parte significativa del back ground in cui ha le radici il miglior tango di oggi, per focalizzarsi su Milano in favore di un’esperienza che mi ha coinvolto personalmente e che cercherò di raccontare in una forma affatto agiografica. Nel quadro generale del progetto il tema, se mai mi fosse sembrato utile, sarebbe stato affrontato molto più avanti. Ma seppur condividendo la teoria di Cortazar, che reputa l’enfasi per le ricorrenze alla stregua di un inequivocabile sintomo di stupidità, questa volta mi smaschero sottomettendomi alla sua diagnosi severa. Insomma ve lo dico. Il 19 settembre 2020 segna il venticinquennale del primo concerto di Tangoseis, il mio primo e fortunato gruppo, attraverso cui ho avuto modo di avvicinarmi al tango dal varco internazionale aperto da Astor Piazzolla. E’ bastato poco per restare coinvolto nell’ebbrezza sensoriale che sa trasmettere la sua musica, anche a chi come me in quell’epoca la conosceva solo superficialmente, sebbene in una circostanza bizzarra Piazzolla l’avevo conosciuto di persona. Alla cultura argentina ero già introdotto per via letteraria, i il tango mi era sembrata la migliore camera di risonanza per entrare meglio nel mondo di Cortazar, Benedetti, Gelman, Arlt, Borges,che già avevo iniziato ad approfondire non senza una certa ossessione compulsiva nella ricerca delle loro opere. Nessuno dei fondatori di Tangoseis immaginava allora che nel nostro futuro ci sarebbero stati oltre 500 concerti e in sale da concerto tra le più importanti al mondo. Cito solo il sestetto di luoghi che mi è più caro: i meravigliosi Concertgebow di Amsterdam e Palau de la Musica Catalana di Barcellona, dove registrammo dal vivo un dvd del recital El Tango de Astor Piazzolla, la produzione del Piccolo Teatro di Milano con la regia di Filippo Crivelli, che Milva aveva progettato insieme allo stesso Piazzolla portandolo insieme al suo quintetto in tutto il mondo per cinque anni; il Wiener Staatoper; il Teatro San Martin di Buenos Aires, qui nella grande Sala Coronado, tappa di un tour con Daniel Binelli al bandoneon; la Orchard Hall di Tokyo e la Philarmonie im Gasteig di München, in queste ultime una strana casualità ha voluto che esattamente il giorno precedente ai nostri concerti, suonasse il trio di Keith Jarrett. Eppure quel primo concerto di venticinque anni or sono non lo volevamo proprio fare, perché il gruppo non esisteva ancora quando la nostra pianista era stata contattata. Il Sindaco che ha telefonato aveva ascoltato un cd con musiche di Piazzolla concepite con un’imperdonabile patinatura hollywoodiana. Lo avevamo registrato con un ensemble orchestrale diretto David Searcy, il primo timpanista dell’Orchestra del Teatro alla Scala che, per quella produzione della EMI Classic, aveva convocato anche diversi scaligeri in cui l’indiscutibile bravura si sposava con una evidente ignoranza in merito all’estetica del tango che, neanche troppo in fondo, per loro rappresentava una specie di esotica villeggiatura nel paese di Maradona: Gardel, Fangio, Monzon, Evita, Peron, i desaparecidos, personaggi e fatti clamorosamente sconosciuti, per non parlare di Pugliese, Troilo e compagnia bella. Piazzolla diceva che il tango non contempla i colori pastello: tutte le esecuzioni di quel lavoro si presentavano nei tenui colori pastello, indispensabili a celebrare il mito apollineo del bel suono a cui sono giustamente devote le orchestre classiche. Per questo nel tango il loro impiego ha un effetto cinematografico, che smarrisce il suo odore della vita smussando l’originaria energia ritmica, compromessa in primo luogo dalla massa inerziale di un’orchestra che non c’è modo di alleggerire. Ma il tango è dionisiaco, e Piazzolla è Dioniso in persona, furore di coltello che può diventare strazio viscerale o alternativamente, tenerezza di piuma in leggerissime carezze anche sensuali. Aldilà dei fraintendimenti che attraverso questo cd insegnano involontariamente come non si deve affrontare la musica di Piazzolla, il fatto pratico era che quell’ensemble formato da oltre quaranta strumentisti, non poteva esserci in quel 19 settembre perché l’orchestra del Teatro era in turnèe, direttore compreso. Il Sindaco di Trezzo d’Adda non voleva sentire ragione, facendosi così insistente che allo stremo, la pianista Vicky Schaetzinger assicurò che il concerto poteva essere tenuto da un gruppo più contenuto. Accettarono con gioia questa soluzione ma era già la fine d’agosto, quindi le probabilità di poter onorare decentemente quell’impegno rimanevano veramente poche. Resasi conto di questa spinosa questione, Vicky sparò un cachet spropositato per farsi dire di no. Nessuno al mondo lo avrebbe sottoscritto, ad esclusione del Sindaco, per di più senza batter ciglio e men che mai tentare di contrattare sulla cifra. Nelle prime due settimane di quel settembre provammo in anticipo cosa volesse dire la tirannia di un lockdown! Chiusi a provare e provare e provare in un’oltranza analitica, tra caffè, sigarette, superalcolici e tutta una varietà di minuscole gioie che cementavano la confidenza umana. Bisognava dare anche un nome a questa nuova formazione. Eravamo in sei, quindi scegliemmo con il più irrisorio sforzo di fantasia, il titolo di una composizione che Astor Piazzolla aveva dedicato al sestetto di fiati Melos: Tangoseis. Arrivò la fatidica serata prevista in una piazza senza storia dove era in corso una protesta contro i continui passaggi degli aerei che decollavano da Linate. E devo dire che la loro musica concreta, in alcuni casi era un effetto quasi augurabile o almeno compatibile con il repertorio di Astor che nell’ansia di non riuscire a prepararlo, risultò di lunghezza inammissibile. La questione degli aerei era testimoniata da una scritta che correva sotto il palcoscenico per tutta la sua lunghezza: stop ai voli! Dico questo perché è collegato al secondo concerto in cui il contratto era non meno che jugulatorio, facendo precipitare il guiderdone a risicata prebenda. Si doveva andare al Cotton Club…e per di più non a quello ellingtoniano di Harlem, bensì a quello di Ascoli Piceno dove eravamo stati inseriti in un cartellone jazzistico molto ambizioso, tra Steve Coleman e il quartetto di Danilo Perez per intenderci. Ma come muoversi con tutta quell’attrezzatura di percussioni, tra marimba, vibrafono, Glockenspiel, tamburi, un catalogo di strampalati aggeggi come il guiro, i crotali, e perfino pittoreschi oggetti di tradizione partenopea dai nomi stravaganti…Putipù, Scetavajasse e Triccheballacche. Non potevamo viaggiare con quattro automobili perché il misero valsente sarebbe andato tutto in benzina, pedaggi e qualche rachitico panino da autogrill. Spuntò improvvisamente la divina provvidenza. La incarnava un prete rosso, che gestiva meritoriamente un centro di recupero per le tossicodipendenze, prestandoci quello che per un musicista è sinonimo di riuscita sociale o addirittura passaporto di indipendenza, libertà e successo: il furgone. Però quel furgone dell’associazione era così squinternato che non poteva rappresentare uno status symbol, . Fatto sta che dalla scritta “stop ai voli” sotto il modesto palco di Trezzo d’Adda, passammo a “stop alla droga”, visibile a caratteri cubitali su entrambe le pareti laterali del furgone, sfrecciante in direzione della Città delle cento torri. Poi Milano. I primi passi furono al Tangram, una scatola nera dove ancora si poteva fumare ascoltando concerti jazz, contribuendo al marasma di un pubblico spesso disattento che tra una birra chiacchierava, facendo a gara con l’amplificazione utilizzata dai musicisti e incalzando senza misericordia sotto gli assoli di contrabbasso. A fronte di questo scenario inquietante, optammo per un suicidio annunciato: decidemmo di suonare senza amplificazione, completamente acustici. In tutte le serate il pubblico era straripante e le prime file arrivavano sotto i leggii. Un miracolo di cui non so attribuire l’origine, aveva trasformato quel locale chiassoso, in un luogo dove tutti osservavano il silenzio religiosamente. Si creava quell’empatia emozionale tra musicisti e pubblico che non è affatto scontata in un jazz club, dove gli spettatori li devi conquistare per mutarli in ascoltatori. Per inciso in una di queste serate al Tangram arrivò il cronopio Marco Castellani che già allora, come tutt’oggi, era la voce più competente in materia di tango, e la modulava con il raffinatissimo stile letterario che gli ascoltatori di Radio Tango Macao hanno imparato ad ammirare. L’attività prese continuità costringendoci a imbarcarci spesso sul furgone sponsorizzato del prete rosso e a incontrarci per sognare insieme durante piacevolissime riunioni in quello che chiamavamo “l’ufficio”, sito in un luogo cult della Milano anni’70: la birreria Stalingrado...e ho detto (quasi) tutto. Nel 1997 registrammo il primo cd intitolato Loco yo loco vos e fortuitamente proprio nello stesso bellissimo studio Mondial Sound, dove Astor aveva registrato Summit con Gerry Mulligan. Quello stesso anno ci invitarono per due concerti alla Palazzina Liberty di Milano, dove da ragazzo andavo ad ascoltare Dario Fo e Franca Rame in un’atmosfera libertaria di irripetibile spontaneità. La richiesta del pubblico fu così sorprendente che aggiungemmo all’ultimo minuto una recita straordinaria, anch’essa sold out. In quell’occasione e per un certo periodo successico, abbiamo avuto l’onore di suonare tra i musicalissimi incantamenti della violinista argentina Anahi Carfi, una vera diva, primo violino dell’Orchestra della Scala per oltre un ventennio e primo violino anche in quella turnèe così malaccolta in cui Piazzolla si ostinò a presentare i suoi lavori per quartetto d’archi e bandoneon. La loro impostazione bartokiana ha evidentemente spiazzato il pubblico che si aspettava tutt’altro. Ricordo che al Teatro Smeraldo non pochi erano rimasti così delusi da voler chiedere il rimborso del biglietto. Con Anahi Carfi al violino in quel periodo il mite Massimo Caroldi suonava il flauto: era il mio amico del cuore e formavamo una coppia assolutamente ridicola per chi ci guardava camminare fianco a fianco. Tralasciando la ghiotta aneddotica, descrivo una fotografia: lui altissimo e magrissimo con un astuccino contenente il flauto; io piccoletto e in carnazza con quel contrabbasso ingigantito ancora di più dalla sua mastodontica custodia. Poi tra i sei c’era una giovanissima Vicky Scaetzinger, musicista di temperamento non meno che vulcanico; Marco Pezzenati, scapestrato percussionista dai facili estri e pragmatico tombeur de femmes; io al contrabbasso ed Eugenia Marini, una splendida musicista che allora suonava la fisarmonica, incarnando il desiderio (levantino?) di Piazzolla. L’aspirazione del Maestro auspicava la massima diffusione della sua musica, e vedeva questo strumento come il più accreditato protagonista nella realizzazione del suo sogno, per via di un timbro adatto a surrogare tutti i topoi identificati nel suo bandoneon. Salvo Mauro Rossi, che era il titolare ma in quel periodo viveva in Spagna suonando come primo violino dell’Orquesta Nacional de España a Madrid, la formazione è quella originaria. Poco dopo il percussionista Marco Pezzenati vinse il concorso al Teatro San Carlo di Napoli e non grazie ai pittoreschi Putipù, Scetavajasse e Triccheballacche, ma ai timpani che governava magistralmente. Non poteva essere più dei nostri così come Eugenia Marini e Massimo Caroldi che hanno lasciato il gruppo per motivi personali. La formazione ricalcò quella del quinteto di Piazzolla con l’arrivo del chitarrista Mauro De Federicis e del bandoneonista Gilberto Pereyra, argentino ma residente a Parigi. Immediatamente dopo il ritorno da un tour in Brasile e Argentina, registrammo con la nuova formazione il cui titolo fu suggerito da un fatto reale. Si andava a Bologna per registrare nello studio di Lucio Dalla, ma in città non c’erano stanze d’albergo disponibili neanche al Baglioni per via di un evento MTV che aveva attirato persone da tutti gli angoli d’Europa. E allora in cerca nella notte, risalendo la via Emilia in direzione Modena. Niente. L’idea di pernottare a Bologna per essere pronti e riposati il giorno dopo, stava ritorcendosi a incubo. Arrivano le tre di notte, questa volta annunciando una provvidenza che non giunse nei panni di un prete ma da una scintillante luce nel cielo buio della notte. All’estrema periferia della città balsamica, un neon abbagliante che sembrava un miraggio, un ex-voto, o addirittura il terrificante emblema di una chiamata, ci annunciava la presenza di un hotel dal nome Hotel Astor. Quell’apparizione con un nome così emblematico sembrava dirci che lì avremmo finalmente trovato le camere sufficienti ad ospitarci. E fu proprio così: un happy ending! Feci la foto dell’insegna che dopo un trattamento grafico divenne la copertina del cd e automaticamente anche il suo titolo. L’incisione si esaurì nel lampo di due giornate con un giallo: al secondo giorno il tecnico scoprì di aver cancellato inavvertitamente tra brani! Li registrammo di fila la mattina stessa, ed era buona la prima. Alla fine di quell’ottobre del 2000 mi, toccò anche il compito di completare le note di copertina in parte scritte dal produttore Pino De Biasi. Le ho tra le mani ne riporto uno stralcio che sintetizza il nostro approccio alla musica di Astor allora: “il nuevo tango di Piazzolla ha trovato la sua identità liberandosi degli stereotipi linguistici del tango tradizionale, mantenendone però l’essenza semantica, il profumo, o meglio l’odore ed anche la quinta dietro cui si protegge il suo segreto. Abbiamo imparato che la lettura delle sue partiture non svela questo segreto, ma è solo l’inizio di una lunga strada che ancor oggi noi stessi stiamo percorrendo, non per accanirci nell’imitare un’impronta, ma per cogliere l’origine dei suoi dettagli e quindi proporre un’interpretazione altra e insieme concettualmente fedele. I quattordici numeri raccolti in questa seduta fanno il punto della situazione: una sosta all’Hotel Astor pima di riprendere il cammino”.