Balcarce e la sua musica sono entrati così profondamente nel cuore dei musicisti di oggi che può capitare di ascoltare versioni sui generis del suo Si sos brujo come quella che Gustavo Hunt ha arrangiato per il suo agile quartetto ventoso, facendoci brindare ad una nuova famiglia di strumenti affacciatasi coraggiosamente al tango circa un paio di decenni fa: la famiglia delle ance, composta da tutti i tipi di sassofoni e clarinetti e qui allargata al flauto, un baby pensionato del tango che dopo l’eccitante fiammatala nell’epoca fondativa, è stato messo da parte e resuscitato in rarissime circostanze. Colgo l’occasione per uscire fuori strada e provare ad imbastire un breve panegirico in onore di questo strumento di antica nobiltà, ricordando una mosca bianca o una pecora nera a vostra scelta, come “El negro” Domingo Rulio, il Jean Pierre Rampal del Rio de la Plata che spopolava al Teatro Colon, ma era anche tanguero de ley: certificato dal puntuale cedimento a tutte le malìe della boheme. E Buenos Aires vanta una robusta letteratura sulla generosa offerta che mette a disposizione di personaggi come lui, offrendo incantevoli mujeres guapas pronte a cedere al richiamo del testosterone, cavalli saettanti o pesanti brocchi per i compulsivi scommettitori alle corse e tutti i paradisi artificiali e non, pronti ad essere alla portata del bon vivant. Tra queste faticose faccende da true sportman (secondo la qualifica con cui la Regina madre ha descritto il consorte per le sue imprese extra coniugali), Rulio ha trovato il tempo per diventare un virtuoso assoluto nel suo strumento, raccogliendo anche un piccolo curriculum musicale come tanguero. Basterebbe citare Pa' que bailen los muchachos, lo stupendo album registrato negli anni del Caño 14 con Leopoldo Federico, Ubaldo De Lio e il secondo chitarrista Jorge Maiquez, o l’interpretazione del solo nell’introduzione che gli ha scritto Mariano Mores per una sua versione di La Cumparsita, la collaborazione con Argenrino Galvan, Carlos Garcia, quella in alcuni dischi di Julio Sosa e di Afredo Zitarrosa….infine una milonga che ha composto lui stesso con un certo successo, intitolandola Al galope, forse galvanizzato in uno di quei giorni in cui le sue passioni equestri sono state premiate dalla giocata giusta.
Alla rianimazione del flauto avviata da Rulio, si unirà Piazzolla con una serie di sei brani per flauto e chitarra intitolata Historia del tango e, addirittura, nella sua operita Marie de Buenos Aires assegnando al flauto momenti da protagonista che di solito sono destinati al violino. Il flauto quindi estromesso dalla orquesta tipica si riaffaccia prima timidamente poi con più coraggio oggi, per esempio nelle mani di Eduardo Tami e soprattutto di una donna, una musicista veramente straordinaria che si chiama Paulina Fain che rincontreremo nel nostro viaggio tra la musica del tango contemporaneo. Dal 1996 questo quartetto di provetti sassofonisti si prende la briga creare un repertorio di tangos dal timbro assolutamente eccentrico, anche rispetto ai più originali che abbiamo ascoltato nel ‘900. Certamente questo timbro di aerofoni solitari ci sembra meno legittimato di quello, per esempio, del Word Saxophone Quartet, che dalla fine degli anni ’70 ha aggrovigliato le linee delle sue ance in stridenti contrappunti per rivendicare anche politicamente l’appartenenza alla Mother Africa dei tamburi e ancora ignora che un giorno sarebbe nato il blues. blues. In questo Cuarteto D’Cotè, non c’è nessuna leva di protesta e nemmeno l’invenzione del free tango, ma l’adattamento dei caratteristici oggetti sonori che distinguono il suo linguaggio, ad un’orchestrazione bizzarra che segue l’idea di “desarrollo” che sarà un po' il leid motiv di questo secondo appuntamento dedicato ad Emilio Balcarce. Insomma, diciamocelo: se le vie dell’arrangiamento e dell’orchestrazione non sono infinite come quelle del cielo, il tango contemporaneo ne sta scovando diverse, mettendoci di fronte a proposte certamente singolari in tutti i sensi. Alcune ben fatte, altre che stanno cercando il cammino per realizzarsi, altre ancora, e ahimè non sono poche, che quel cammino non lo troveranno mai e poi la maggioranza rumorosissima: quella formata da orchestre cocciutamente assillate dal realizzare riproduzioni impossibili, con cover caricaturali suonati anche male e para-cover alla maniera di D’Arienzo, Tanturi, Di Sarli, etc etc…Dopo questo delirante preludio apostolico, ritorniamo a Emilio Balcarce che abbiamo lasciato nella beatitudine della gloria, curiosando tra i suoi due arrangiamenti paradigmatici di La Bordona, indicabile come il plesso solare della sua traiettoria di compositore. Questa creazione ha contribuito a sottrarlo all’umile penombra di secondo leggio nella sontuosa fila di violinisti schierati dall’orchestra di Osvaldo Pugliese. Ricoprire quella posizione defilata dalle luci destinate al primo violino corrispondevano in fondo al suo carattere di gentlemanlike un poco schivo che lo ha accompagnato per tutta la vita. Anche il titolo di autore moderno acquisito di diritto con l’ideazione di un brano come La Bordona non gli interessava affatto e, tanto meno, si sarebbe riconosciuto volentieri tra i radicali programmatici che si erano coraggiosamente esposti in quegli anni, ancora verdi per accettarne le prove e che, se mai, sarebbero maturati molto tardivamente. Secondo la sua opinione il rinnovamento del linguaggio nel tango, doveva giungere non da una frattura bensì da un desarrollo, quindi utilizzando solo le caratteristiche peculiari al genere. Insomma una revisione dalle venature puriste che rimandassero immediatamente ad un modello di stretta parentela semantica con le stratificazioni accumulate nel tango in oltre mezzo secolo di vicende musicali. Questa opinione era in linea con quella di Pugliese, che con parole disponibili ed insieme ferme esortava così i suoi arrangiatori: “hagan lo que quieran, pero no se alejen de la cosa tipica nuestra… no vayan a buscar cosas de jazz, o de esa musica europea…”. La perfezione di un desarrollo così, concepito a monte e quindi già presente nella struttura originaria di La Bordona, fa alzare le antenne ad uno dei musicisti che invece stava procedendo a incidere una frattura con la tradizione della musica che amava: Astor Piazzolla. E qui è necessaria una puntata nella republichetta dell’aneddoto. Lo introduce lo stesso Balcarce: “Piazzolla me pidió un tema para grabar, que quería grabar con cosas que no fueran de él". Con la sua proverbiale modestia, il nostro baffetto elettrico sottopone all’orecchio esigente del Maestro qualcosa che non ha ancora un titolo e che Piazzolla deciderà di battezzare con una parola che è tutta un programma: Sideral. Sospetto che avesse già in mente l’arrangiamento e quel termine, che interpretato in maniera figurata ha il significato di distanza incommensurabile, descriveva ad hoc dove si sarebbe proiettato il risultato rispetto ai lavori dei colleghi. Siamo nel 1963 e l’orchestrazione di Piazzolla è organizzata per il suo nuovo octeto, formato dal prodigioso quinteto già attivo dal ‘60, con l’aggiunta delle percussioni, il violoncello di Josè Bragato e…un flauto. Certamente l’arrangiamento che ha realizzato in quell’anno leopoldo Federico per la sua orchestra, sarà piaciuto a Balcarce perché il suo impianto è in linea con il desarrollo e la versione sembra composta l’altro ieri, arrangiata ieri e registrata oggi. Puro tango contemporaneo della miglior stoffa.
Devo dire che da incallito ignorante, sull’incisione di Sideral realizzata da Piazzolla prima di oggi non mi ero fermato neanche superficialmente: semplicemente la ignoravo o, ancora più gravemente, l’avevo ascoltata così distrattamente da non aver registrato nella mia memoria la sua portata e, purtroppo, credo che la verità sia proprio questa. Fortunatamente l’occasione di interessarmi più da vicino a Emilio Balcarce mi ha fatto scoprire questa gemma, sia dal punto di vista autoriale che da quello del risultato Straordinario con la esse maiuscola, dell’arrangiamento di Piazzolla. Non riesco ad immaginare il turbamento emotivo che deve aver provato Balcarce nell’ascoltare questa prova di un Piazzolla in grandissima forma che va oltra anche al concetto di fractura. Sarà stato travolto da un entusiastico stupore o infastidito per la profanazione che ha scompaginato la sua opera innominata? Come si dice, si accettano scommesse, ma in ogni caso il dubbio resterà. Fatto sta che prima di giungere ad una melodia del tema bisogna attraversare la Wunderkammer onirica dei 45 secondi di introduzione che sono un’eternità. E dopo questa sperimentale cadenza elegiaca, la metamorfosi si fa acre e di spavalda aggressività, come s’addice al ritratto di appassionato insolente che ci siamo fatti dell’uomo, almeno per la sua discordanza burrascosa con l’ambiente del tango e la sua attitudine a velenose risse verbali con certi colleghi. Provo a descrivervi sommariamente gli incontri che si susseguono. Nei primi 12 secondi una figura ritmica fatta dalle percussioni e dal contrabbasso ci accompagna in un’atmosfera jungle ellingtoniana, più rarefatta ma vicina a quella dell’incisione di Caravan degli anni ’30; al 13° secondo si aggiunge un accordo arpeggiato di pianoforte, un accordo vibrato del bandoneon e una scala ascendente e discendente del flauto; fino al 30° secondo lo schema si ripete con accordi che cambiano senza relazione di consequenzialità; dal 30° al 34° secondo restano sole le percussioni; al 34° secondo ritorna un accordo di bandoneon; al 36° secondo entra il flautista Jorge Barone, un pò travestito da fauno debussyniano, con una nota lunga che viene in seguito ribattuta; il flauto resta da solo fino al secondo 46° quando dopo un suo cromatismo ascendente inizia una melodia dolcissima sotto cui è raggiunto dal contrabbasso con una serie di note armoniche, lunghe e suonate con l’arco da Kicho Diaz; da una specie di campanello suonato dal percussionista Leo Jacobson e da una serie di inquietanti arpeggi della chitarra elettrica di Oscar López Ruiz. Quest’ultima melodia del flauto che mantiene il climax incantatorio dell’introduzione è uno dei due temi composti da Balcarce. Ma Piazzolla ci sorprende ancora con un’idea geniale…che sicuramente avrà fatto trasalire l’autore: questo tema non è il motivo principale che generalmente chiamiamo parte A, bensì l’estribillo che nella convenzione è la parte B o ritornello. Al 56° secondo un’anacrusi del pianoforte di Jaime Gosis introduce il ritmo marcato con il bajo caminante, il guiro e una linea ritmica del bandoneon, mentre il flauto conclude l’esposizione della parte B, fino al 64° secondo. Frase di collegamento del bandoneon e ripetizione dell’estribillo questa volta con un Antonio Agri che ha un fraseggio e dei guizzi che lacererebbero il più resistente cuore di pietra. Al minuto e trenta secondi un bordoneo ci porta finalmente all’esposizione del tema principale, la parte A, a carico del bandoneon e con uno sviluppo melodico largamente manipolato dall’arrangiatore. E abbiamo superato di poco la metà della durata complessiva che ora vi faccio ascoltare dopo un’ultimissima informazione. Per aumentare la tensione a 3’ e 22’’ Piazzolla cambia tonalità salendo di un semitono e caricando ulteriormente il concitato finale con il contrabbasso che si aggiunge alle percussioni con i classici rumori del golpe e della strappata in cui si conserva l’eco decareano.
Nel 1968, annata gloriosa per l’utopia della “fantasia al potere” che ha fatto sognare un’intera generazione, Balcarce registrerà il suo Sideral con una formazione nata dalla fuoriuscita di ben sei assi dall’orchestra di Osvaldo Pugliese. Non si tratta di una contestazione nella contestazione rivolta al sistema cooperativo di Pugliese o al suo rigore stilistico, bensì realizzerà un’idea che lo stesso Pugliese aveva solo ipotizzato qualche anno prima senza matterla mai in pratica: formare un sestetto con l’organico decareano. Tradimento? Opportunismo? Divergenze? Balcarce commenta la questione ricordando che la motivazione era attinente alla scarsità di lavoro che preoccupava e alla conseguente difficoltà di mantenere vivi organismi orchestrali delle dimensioni di una tipica. Già alcuni luminosi direttori avevano scelto di affiancare alle loro orchestre organici ridotti (vedi il cuarteto di Troilo), altri avevano addirittura smantellato tutto (vedi Salgan, prima in duo con De Lio quindi in quintetto con il Quinteto Real). Pugliese invece non si è piegato ad un ridimensionamento, affrontando le difficoltà di mantenere la sua formazione così com’era. Superato lo shock, ingaggia validi sostituti ai sei che formeranno il Sexteto Tango, restando artisticamente una confraternita di devoti allo stile miracoloso del Maestro Illustrissimo. Ancora una volta ritorna in campo il concetto di desarrollo, uno sviluppo che fiorisce palesemente in seno al Sexteto Tango innestandosi sull’ingranaggio pugliesiano, perfezionato da anni di lima e creatività collettiva che lo ha fatto diventare biologico per i sei. In questo caso il desarrollo non è orientato a creare dei passi in avanti nell’evoluzione del linguaggio del tango: la sua disperata sfida è piuttosto quella di occupare una posizione laterale rispetto ai raggiungimenti pugliesiani, utilizzando esattamente gli stessi procedimenti complessi, ma con accenti caratterizzati, che si condensano in uno stile decisamente originale e conforme al clima della swinging Buenos Aires degli anni sessanta e settanta: e qui anche le date parlano il loro inesorabile linguaggio. I due decenni afflitti del colonialismo culturale dei nordamericani, trascorrevano all’insegna del rock&roll e dall’importazione di musica latinoamericana di varia provenienza. Ma se il tango come ballo interessava una piccola minoranza di pubblico, dall’altro lato i musicisti erano liberati da qualsiasi vincolo che li legava affinchè la loro musica risultasse ballabile. Balcarce ha composto e arrangiato diversi brani per il gruppo dove continuava ad occupare il ruolo di secondo violino dietro a Oscar Herrero, con i bandoneonisti Osvaldo Ruggiero e Victor Lavallen, il bassista Aniceto Rossi e Julian Plaza convertitosi da bandoneonista a pianista. In uno dei brani scritti da Balcarce per il sestetto, Magia Porteña, si trova una particolare curiosità che giustifica il titolo: l’autore gioca a fare il mago nell’arrangiarlo. La magia bianca sta nel trattamento del motivo fondativo che è un brevissimo riff, vale a dire una minuscola cellula composta da un pugno di note. Nell’arco dell’arrangiamento lui riesce a tirarla fuori dal suo cilindro per ben tredici volte, ma cambiandola sempre in qualche dettaglio, in una parafrasi, in una rarefazione ritmica, in un enjambement, in un suo frammento: ad esclusione di una volta dove una ripetizione adiacente ce la presenta così come era nel suo pattern originale. E non si tratta di una forma di minimalismo ma di un virtuosismo permutativo da esercizi di stile alla Queneau. Dopo esaltanti successi internazionali, più che in patria, nel 1991 la parabola del Sexteto Tango si chiude. Emilio Balcarce decide di ritirarsi a Nequén, capitale dell’omonima regione che è stata teatro ottocentesco di alcuni tra i più sanguinosi episodi della famigerata Campagna del deserto, condotta dall'esercito del crudele Generale Rosas in Patagonia allo scopo di sterminare o cacciare dal territorio, le tribù dei nativi Mapuche e Teheulche. Ma allora se il nostro Emilio si è ritirato perché lo abbiamo inserito nel quadro del tango contemporaneo che stiamo configurando? Perché oltre a tutti i presupposti elencati fin qui, nel 2000 accade un fatto che, anche alla luce dei brillanti risultati ottenuti nel tempo, possiamo ritenere epico. Il contrabbassista e animatore Ignacio Varchausky prova a contattare l’allora l’ottantenne, proponendogli la direzione di una orchestra che ha lo scopo di formare al linguaggio del tango dei giovani musicisti. Balcarce è titubante ma le insistenze di Varchausky e l’impegno nel sostenere l’impresa da parte del Ministerio de Cultura del Gobierno de la Ciudad de Buenos Aires, alla fine fanno capitolare le sue perplessità. Così nasce l’Orquesta Escuela de Tango, inizialmente sostenuta nelle prime parti dai musicisti di El Arranque. Il progetto che sembrava francamente una buonissima intenzione destinata a restare nel regno di Utopia, prende avvio con entusiasmo artistico e il necessario sostegno pubblico. La qualità dei giovani radunati tramite audizioni annuali cresce, i concerti si moltiplicano, le registrazioni si affacciano con arrangiamenti nuovi di fiamma e cover finalizzati a sviscerare vari stili delle grandi orchestre, sotto la sapiente guida di Balcarce.\ Nel 2004 la registra statunitense Caroline Neal gira un prezioso documentario sulla nascita e lo sviluppo di questa esperienza straordinaria. Un pò perché affascinata dal soggetto, molto grazie al trascinante amore per Ignacio che infine sposerà, la pellicola viene ultimata e intitolata “Si sos brujo. Una historia de tango”. Un chiaro omaggio a Balcarce che resterà alla testa dell’orchestra accompagnato dal solito puntiglio e serietà di sempre, con forze moltiplicate dall’avere a che fare con i giovani. Quale sarà l’obbiettivo della sua missione? Il “desarrollo” come idea necessaria per l’affermazione del tango contemporaneo: “…eso es lo que van a tener que retomar los nuevos musicos que son muy buenos. Van a tener que retomar eso y ellos ir creando y poniéndolo, poniéndolo en la época que estamos viviendo. Poco a poco, porque eso no se puede hacer de la noche a la mañana". Concetti che hanno accompagnato il Patriarca in una sorta di paideia platonica dove alla qualità delle informazioni sulle tecniche e sulle diverse prassi orchestrali, sono state sostenute dal suo ineccepibile profilo umano e morale. Quando ci ha lasciati l’orchestra ha preso il suo nome continuando nella formazione dei giovani musicisti provenienti da tutto il mondo con altri direttori. Il “desarrollo” non si è fermato.
12 ottobre 2020
Paideia y desarrollo
di Franco Finocchiaro
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