Lunedì 4 maggio 1998. Una pagina intera del quotidiano La Repubblica è occupata da un articolo che il giornalista Stefano Rossi ha intitolato “Quella Boca in riva al naviglio”. L’argomento è il tango ma intorno ai Tangoseis che secondo il recensore “hanno elaborato uno stile particolarissimo”. Questa pagina inattesa è finita tra la mani di Milva che, dopo la scomparsa di Piazzolla ed un periodo con il costosissimo quinteto di Daniel Binelli per via dei continui viaggi che i cinque dovevano fare partendo da Buenos Aires per le mete europee, ci convocò. Iniziò una relazione professionale ma anche umana che è durata oltre tredici anni, fino a quando la pantera non ha deciso di ritirarsi progressivamente dalle scene. La collezione di collaborazioni è comunque molto più ampia e vede tra gli altri Giorgio Albertazzi svogliato lettore di Borges, Michele Serra librettista geniale che con noi ha gettato scompiglio nel Peter Pan del baronetto scozzese James Mattew Berrie, il compositore Marco Tutino che ha scritto espressamente per noi un tema intitolato Tango oscuro, David Riondino, Cochi Ponzoni, Paolo Fresu e Roberto Alvarez, leader dei Color Tango con cui facemmo una serie di serate ed una sorta di stage ininterrotto per apprendere da lui lo stile Pugliese, cioè tutto quell’insieme di dettagli che sugli arrangiamenti che ci aveva procurati, non erano indicati in quanto appartenenti alla prassi d’orchestra. Serate indimenticabili tra le quali il veglione di capodanno che ci avrebbe portato nel terzo millennio, esattamente sulle note di La mariposa, suonate dal palcoscenico del mitico Cafè Procope di Torino. Oltre a questa esperienza travolgente, voglio ricordarne una di confine, dove nella musica di Astor Piazzolla è stato iniettato il linguaggio del jazz attraverso la tromba di Paolo Fresu. Con quest’ultimo l’interazione è stata una delle più complesse e semplici allo stesso tempo. Complesse perché il repertorio doveva assicurare uno spazio improvvisativo che andava creato appositamente; facile perché Paolo è un musicista di una preparazione e di una creatività, che già dalla prima nota uscita dalla sua tromba nelle prove, ha dato prova di sé gettandosi dentro la musica e comodamente a suo agio con il nostro linguaggio. Con lui abbiamo allestito il progetto intitolato Nuevo Summit, riprendendo quello storico tra di Piazzolla e Mulligan. La registrazione di questa produzione originale del Festival Jazz di Vignola è stata inclusa in un cd allegato alla rivista Musica Jazz. In quell’occasione nell’organico di Tangoseis figuravano e il violoncellista argentino Jorge Bosso, anche compositore originalissimo che vanta illustri trascorsi nell’orchestra di Leopoldo Federico, e il batterista Ferdinando Faraò, che si è unito a noi anche nelle varie produzioni dell’operita Maria de Buenos Aires che Tangoseis ha portato un pò in tutto il mondo, sempre insieme a Milva e a Josè Angel Trelles, un cantante che per molti anni ha collaborato con Piazzolla. La struttura di questa operita è organizzata in numeri chiusi, un po' come accadeva nell’opera verdiana, ma in questo caso sono previsti anche recitativi e, a gusto della regia, parti danzate che spostano il tutto verso i canoni del grand opéra francese. Sul caotico libretto non mi dilungo, limitandovi a dire che ha una natura sconcertante e un po' noir alla Lautremont, per citare un poeta venerato dai surrealisti e uruguayano acquisito. La scena si svolge in una Buenos Aires fantasmagorica da trionfo dell’irrazionale che sembra non stringere alcun laccio dialettico col reale che immaginiamo solo perché è suggerita dal titolo. Maria, un Poeta cantor, un Duende e un coro da tragedia greca, si intrecciano in un labirintico coacervo zeppo di simbologie e di neo lunfardismi, creati da Horacio Ferrer per rendere ancor più astratta la storia della protagonista, indicata da chi ha perso il sonno per venire a capo di un simile enigma, come l’incarnazione di Buenos Aires, che nasce, muore, rinasce e rimuore. Bisogna portar pazienza. L’ensemble previsto per questa operita è originalmente di 11 strumenti, ma come al solito Tangoseis ci ha messo lo zampino, preparando un’orchestrazione particolare che, oltre a ridurre a nove i musicisti in organico, commetteva il sacrilegio di sostituire il flauto con il violino. Le raccomandate della Warner Bros si facevano incalzanti per battere cassa, le recriminazioni della vedova Piazzolla sulla deturpazione ululavano confermando quanto l’allarme “guardarsi dalle vedove!” era quanto mai realistico. Ci pensò Horacio Ferrer a mediare, spegnendo le lamentale di Laura Escalada e ridimensionando le richieste dei serrasalmidi nordamericani . Ma non c’è solamente la musica di Piazzolla nel repertorio di Tangoseis che ha inserito composizioni originali e arrangiamenti nuovi di temi tradizionali che quindi sono ideazioni ascrivibili nel quadro del tango contemporaneo. Tra questi due incisi nel cd Pasión A.S. , il vals Flor de Lino e il tango Ojos negros, realizzati con un mio arrangiamento. Quale reticolo di riferimenti ha dettato le coordinate della scrittura? E qui possiamo rispondere di prima mano almeno con una descrizione ellittica e un po' generica. Per quel che riguarda Flor de lino, la prima sensazione che desideravo trasmettere era quella della leggerezza, in sintonia con l’accento semplice e deliziosamente popolare che traspare perfettamente dalle intenzioni dell’autore della musica, Hector Stampone. Sottotraccia a questa atmosfera bucolica da provetto vedutista, mi sembrava interessante inserire qualcosa che andasse nella direzione della vicenda sentimentale raccontata da Homero Exposito e schiacciata sullo sfondo dall’agevolissima melodia primaverile che ha il colore dell’idillio. Non è affatto così, tanto è vero che in un suo verso Exposito elegge il flor de lino a fiore dell’assenza, riprendendo Théophile Gautier che nel suo poema Absence scrive “Comme une fleur loin du soleil,La fleur de ma vie est fermée…”. C’è quindi una contraddizione baudelairiana tra la bellezza del fiore e il male che evoca, essendo simbolo di un amore a senso unico, dal maschile al femminile. Quindi, per creare contrasti, seppure di cartapesta, ho pensato ad un grande rispetto per la melodia originaria, ma anche all’introduzione di elementi di contrasto che fossero, per così dire, trasversali rispetto ai canoni del vals. Già l’introduzione ha l’aria francese dei jazz waltz musette, con chitarra e contrabbasso. La comparsa del motivo melodico suonato dal bandoneon con una linea secondaria del pianoforte riporta la musica sul Rio de la Plata e fino ad una prima cesura eteroclita della melodia. A seguire le linee che accompagnano il bandoneon si alternano e sovrappongono tra il violino e il pianoforte, creando colori diversi mentre il contrabbasso e la chitarra sono il motore del ritmo. La pare B è suddivisa in tre spinti. Il primo vede il pianoforte che suona la melodia e il violino che è incaricato di una seconda linea; nel secondo è il violino che diventa protagonista, mentre l’accompagnamento si fa giocoso con il pianoforte sul registro acuto à la Salgan, un accento di chitarra in controtempo e il contrabbasso che suona una nota fissa a modo di pedale alternando l’ottava; il terzo, dopo la chiusura con un omoritmo, c’è un tutti con il pianoforte che si aggiunge al contrabbasso nell’accompagnamento, mentre il bandoneon raddoppia il violino, finendo la frase con una specie di sincope di basso e piano. Riprende il tema con la stessa struttura, quindi la B inizia con un carillon del pianoforte, continuando come nella seconda sezione della prima esposizione dell’interludio, ma con l’aggiunta dal bandoneon. Quindi si arriva all’assolo di pianoforte con elementi ritmici molto sincopati, anche questi à la Salgan e perciò possibili solo con destrezza da circo nell’esecuzione. La struttura è quella del motivo principale, ma nella seconda parte dell’esposizione c’è un tranello: il bandoneon accompagna in tre mentre il contrabbasso e la chitarra in due creando un poliritmo perturbante. Il finale è insolito, anche lui con un omoritmo che ha un’improvvisa cesura finale. Come dicevo ci sono punti che attraverso cesure, omoritmi, poliritmi, increspano lo scorrere sereno della lievità melodica e questa loro vischiosità ha il compito di suggerire quell’elemento di scoraggiante amarezza contenuto nelle le parole di Homero Exposito. Il secondo tema che ho arrangiato è Ojos negros introducendolo con una cadenza di contrabbasso dove alcune parti del tema sono parafrasate. Per il resto l’impianto cambia totalmente l’atmosfera del brano originario. L’ispirazione mi è venuta guardando una vecchia fotografia sepia del mio amato nonno materno, laureato in trasgressione e felice di iniziarmi a uno stile di vita poco convenzionale. Nella fotografia guardavo quegli occhi che sembravano spilli neri. Mettendo insieme i tasselli, la speculazione era prontissima: il nonno greco di origini e Vinkentios di nome, alias Vincenzo, alias Vicente: Vicente (il) Greco quindi! Con gli Ojos Negros. Perfetto, e così questa rivisitazione è diventato il mio povero omaggio al nonno trombettista del Teatro Bellini di Catania, e soprattutto al nonno che mi regalò la prima chitarra quando ero ancora nel girello e che io gliela spaccai in testa; al nonno che quando ero ancora in età prescolare mi faceva piangere a dirotto raccontandomi le storie delle opere; al nonno che sentivo studiare costellando di bestemmie in greco i passaggi più ostici da superare con la sua cornetta; al nonno che spiavo mentre dormiva in beatitudine sotto l’albero di amarene, dopo essersi bevuto senza prudenza il vino fatto da lui e barricato in una botticella da cinque litri costruita da lui; il nonno che mi faceva bere quel vino proibito alla mia età pre-scolare; il nonno che mi ha insegnato a giocare alle carte lamentandosi perché cercavo di barare con un’invettiva precisa, “sei figlio di tuo padre”, un padre che era un grande giocatore e un impenitente sciupafemmine. Involucrato nei ricordi di questa saga, il brillante tango di Vicente Grego si è trasformato in una languida milonga lenta, con una serie di variazioni timbriche nell’accompagnamento. L’esposizione del primo tema del violino è accompagnata da un bordoneo del pianoforte, dal contrabbasso e da alcuni interventi della chitarra. Il secondo tema passa al bandoneon sempre in questo climax quasi onirico e così via. Ma l’elemento che rende questo arrangiamento particolare e per quello che so, unico, sta nella completa omissione dell’estribillo che a mio avviso (leggi orecchio), ha una mediocre melodia declamatoria e suona un poco (e non poco) cafone. Bisogna avere il coraggio di dirlo: a Vicente Greco il tavolino è nato zoppo. Certo questo taglio è una scorciatoia per non cimentarsi con una melodia che tutti gli arrangiatori ossequiosi si sono tenuti sul groppone. Ci hanno lottato nei modi più diversi ma con risultati che non mi sembrano convincenti fino in fondo. Tra le innumerevoli versioni che conosco, compresa quella di Piazzolla, il trattamento dell’estribillo che mi sembra il più efficace è quello registrato da Pugliese nel 1972, perché, soccorso da acuto ingegno, lo sviluppa in parte con un assolo soave e solitario e la soluzione funziona brillantemente mascherando certe ingenue goffagini. Quindi il mio arrangiamento salta dal tema principale al trio dove sembra che prenda forza, per ritornare quasi subito nella bolla incantatoria dell’accompagnamento tematico. Ma ora è esposto a modo di parafrasi dalla chitarra che continua allontanandosi dalla melodia originaria improvvisando sull’armonia scandita dal basso e dal pianoforte fino alla chiusura che faccio idealmente coincidere con quella di questo breviario itinerante tra la svagata liceità delle memorie.
28 settembre 2020
Tavolini nati zoppi
di Franco Finocchiaro
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