Per fare un blues basta un padrone avaro, una donna spietata o un mulo testardo. Per fare un tango, invece, ci vuole l’assenza, la mancanza di qualcosa, qualcosa che abbiamo perduto e che possibilmente ci faccia male. Parafrasando Ernesto Sabato, verrebbe da dire beati i tempi in cui i tanghi ci facevano sentire la mancanza di trenzas y almacenes, trecce e botteghe, e anche di stradine, muraglioni, erba medica, aranci in fiore. Beati i tempi in cui le nostre vite prendevano le parole dalle canzoni, e gli uomini confessavano a sé stessi la verità con le gonfie frasi del tango.
Chi l’ha detto meglio è un rapper romano di nome Tacito (featuring Doctor Balanzone): FINGUNT SIMUL CREDUNTQUE, gli uomini finiscono per credere a ciò che hanno immaginato. E infatti finiamo per credere persino a Rivero, all’astemio Rivero, che canta La Ultima Curda, l’ultima sbornia.
Ma poi è venuto un tempo in cui l’assenza e la mancanza non sono state più sufficienti. In ogni parte del mondo si è chiamata poesia civile quella che si batte contro la produzione di ferite tradizionali, quelle esterne, mentre poco o nulla si occupa di quelle interne. In Argentina, per esempio, il cosiddetto colloquialismo impegnato degli anni 60 aveva ben altro da mettere in versi che una robetta borghese come l’inconscio e i suoi drammoni. La picana elettrica, tanto per dire, prima ancora di scalfirti il dentro, ti feriva il fuori.
Alla fine l’orrore aveva fatto capolino e danni anche sotto il soma dei poeti, aveva trapassato i confini delle loro superfici, oltre ogni giurisdizione, diritto o statuto speciale. Sbatacchiata quindi tra la realtà brutale e il tenero inconscio, la poesia si è trovata a riprodurre in pubblico le mansioni doppiogiochiste di quel povero diavolo dell’Io: da una parte, agente infiltrato del mondo così com’è e dall’altra, sussurrante portavoce della mancanza.
Il capostipite argentino, il padre putativo di questa postura poetica alla Mata Hari è Raúl González-Tuñón. Nato nel 1905 come Pugliese, e come lui comunista, fin dagli esordi fa sua la lezione del vecchio rapper aeronautico Pindaro: gli uomini sono immemori di ciò che non raggiunge il fiore della poesia, di ciò che non è assoggettato al fluire, al flow, di versi illustri. Date a Raúl un evento, una situazione, una circostanza di cui non essere immemori e ai versi illustri ci pensa lui. Versi liberi, naturalmente, perché gli piace giocare a tennis senza la rete. Come un inviato speciale o un corrispondente di guerra, compone poemi in diretta su scioperi, barricate, bandiere, incendi, inondazioni e sulle molte categorie a rischio in una città che cambia, borsaioli, ipnotizzatori, prestigiatori, acrobati, forzuti da fiera, navi in bottiglia. Dalla guerra civile spagnola invia La Rosa Blindada, un’ode che celebra i Dinamitardi delle Asturie. Il primo a blindare la rosa, dirà di lui Pablo Neruda. Nelle sue poesie cita con precisione araldica i nomi dei poeti e degli scrittori che incontra, da Robert Desnos, a Brecht, Hemingway, Garcia Lorca, Miguel Hernández. Riferisce meticolosamente i luoghi che visita, i cartelli e le insegne che vede, come quella fantasmagorica di una ditta di spurghi a Parigi: Le Excrément Agile. Stavolta basta il nome per fare una poesia.
Quella di Raúl González-Tuñón insomma è una poesia piena d’assenza. Perfetta per il tango. E infatti viene riscoperta e messa in musica dai giovani arrabbiati del Gotán. Dal loro disco meraviglioso dei primi anni 60, vorrei farvi sentire La Cerveza del Pescador Shiltigheim. Qui dentro ci sono tutte le ragioni del tango e molte delle ragioni dell’affaccendarsi umano. Un tango da cui non sono ancora immune, lo ascolto da 35 anni e ogni volta mi fa venire gli occhi lucidi e un groppo alla gola. Facciamogli tanto di berretto! Raúl González-Tuñón, musica e canto di Juan Cedrón, Miguel Praino alla viola, Carlos Carlsen al basso e al bandoneón c’è César Stroscio.
La cerveza del pescador Schiltigheim
Perché beviamo la bionda birra del pescatore di Schiltigheim
Perché amiamo Carcassonne e Chartres, Chicago, il Québec, le torri e i porti
E i mulini bianchi di farina e le luci delle alte finestre accese nella notte dai ladri e dagli uomini in frac
E le isole dove i Canachi mangiano banane fritte e sotto il sole e sotto le palme, tra le agili mulatte suonano l’ukulele
Isole, ho detto, isole, soli rossi, cimbali per Darius Milhaud
Avere il cuor leggero! Cioè amare tutte le donne belle
Avere principi facili, cioè andare in giro con gitani allegri
e dormire in un porto, in un tramonto qualunque, e poi in un altro porto, e in un altro
e andare con la soavità e la disinvoltura di un fumatore d’oppio
in modo che a ogni passo un paesaggio o un’emozione o una contrarietà
ci riconcilino con la piccola vita e la sua piccola morte.
In modo che un giorno ci restino alcuni ricordi, il poter dire sono stato, sì, sono stato in quella passione, in quella curva.
Sono stato per esempio
alla fiera di Aubervilliers, una mattina, con una grigliata,
e amici tranquilli, la tovaglia chiara, il cane, la buona conversazione,
e là fuori le erbivendole di Parigi che ciabattano con gli zoccoli nella neve.
Per bere la bionda birra del pescatore di Schiltigheim, compagni,
è necessario non aver paura di partire e tornare.
Siamo a un crocicchio di strade che partono e strade che ritornano.