Il tango è stato dichiarato morto molte volte, quasi sempre esagerando. Nel 1995 alle Tangofolies di Losanna il professor Rubén Terbalca dell’Università di Buenos Aires comincia la sua conferenza con una notizia clamorosa: “El tango murió el 16 de Junio del 1955” Dalla platea uno gli fa: “A che ora?” Ma è solo una provocazione, la risposta la sapevo già, alle 12:40 ora locale. Ad ogni modo, è vero, negli anni 60, dopo due decenni di splendore, il tango sta affondando. Sparisce dalle radio, dalla televisione, dalle classifiche dei dischi, e soprattutto dai cuori degli argentini. Il grande transatlantico viene inghiottito dalle acque, si vedono soltanto i fumaioli. Le magnifiche macchine orchestrali si disintegrano in una miriade di piccoli e meno costosi ensemble. Nascono le milonghe così come le conosciamo oggi, con i disc-jockey. Si balla con i dischi, cioè col passato e si condannano alla coabitazione forzata musiche fino a quel momento nemiche tra loro. Nel 1963, in un sondaggio di popolarità Goyeneche, il grande Roberto Goyeneche, arriva al sesto posto. Al primo posto c’è Topo Gigio. Persino Troilo, l’idolo di tutta Buenos Aires, viene baciato in fronte dall’insuccesso. E sì che ha appena sfornato i suoi dischi migliori, ironicamente intitolati Troilo For Export, Troilo per l’esportazione, lui che non ha mai voluto conoscere la malinconia dei piroscafi. “Perché mai dovrei andare a suonare in Giappone? Chi conosco io in Giappone?”, diceva agli impresari. E poi c’è il fatidico, superlativo Quinteto di Piazzolla, il tuono di Piazzolla, a cui nessuno si sogna di dare un tetto. Insomma, in questa Buenos Aires tempestosa, dove tutto prende fuoco e neri nuvoloni si addensano all’orizzonte, il tango non trova parole all’altezza della situazione. Eppure c’è tutta una giovane generazione di musicisti e di poeti che le cerca, quelle parole. Impugno le armi perché cerco la parola giusta, dice il poeta Paco Urondo che qualche anno più tardi si darà la morte con una letteraria pasticca di cianuro, per non essere catturato dai torturatori. Così, nel 1965, Juan Cedrón, César Stroscio, Miguel Praino, musicisti poco più che ventenni, fondano il locale capostipite dell’underground, il Gotán di Calle Talcahuano, a pochi metri da Corrientes. Underground non soltanto per determinazione catastale, si tratta di un seminterrato. Non ci sono soldi, i tavoli vengono raddoppiati con una sega, una piccola cucina è adibita alle empanadas, le bibite comprate al chiosco dell’esquina. Ma qui suonano Piazzolla e Rovira, i due eretici del tango, quelli che nessuno vuole, ma che qui si dividono il palcoscenico in una notte leggendaria. Qui, per un mese intero, suona il quartetto free di Steve Lacy e del nostro Enrico Rava. La rivoluzione del jazz, promette un poster scritto col pennarello. Si fa teatro, cabaret d’avanguardia, si recitano versi che sono schegge fiammeggianti, e poi c’è il Cuarteto di Juan Cedrón e César Stroscio. Hanno un’idea semplice e sacrilega, suonare i vecchi tanghi in modo nuovo e mettere in musica i poeti contemporanei, Juan Gelman su tutti. Poesia civile, dura, inconciliabile con le falsità del mondo e i suoi sempre fedelissimi specchi interiori. Per due anni il Gotán è il tempio dell’underground, rifugio e covo di intellettuali, scrittori, teatranti, persino i mostri sacri del tango passano di qui, per un ultimo tango insieme ai giovinastri. Ma il golpe militare del 1966 si avvicina, ogni sera tra il pubblico c’è qualche poliziotto in borghese che appoggia la pistola sul tavolo, a scopo intimidatorio. Arriva il coprifuoco, i carri armati girano per strada. Fine del Gotán, sipario. Di quella esperienza rimangono poche tracce, qualche foto, spezzoni di film, qualche disco. Questa che vi voglio far sentire è la "Milonga della Ganzúa”, la milonga del grimaldello, altrimenti conosciuta come “Los Ladrones”, I Ladri. E’ una milonga quasi gangsta, diremmo oggi, musica di Cedrón e poesia di Raúl González Tuñón, di cui vi parlerò un’altra volta. Sono malviventi ancora romantici, senza catenoni e pitbull. Magari hanno un tatuaggio, un fiore, una barca, il nome di Rosita. Prima di leggervi la traduzione, un ricordo personale. Da César Stroscio mi ero fatto raccontare tutto del Gotán, così non appena vado a Buenos Aires, mi precipito in pellegrinaggio al numero 360 della Calle Talcahuano. Nel seminterrato del Gotán, dell’immortale Gotán, trovo lo strip bar Shayla Show. La musica che esce da là sotto è dei Duran Duran.
I ladri usano berretto grigio, sciarpa scura e camicia a righe, e sennò no... alcuni hanno in tasca una torcia mascherata Del resto si innamorano di ragazze robuste collezionano cartoline postali e a volte sfoggiano un tatuaggio sul braccio sinistro, un fiore, una barca e un nome: Rosita. Tutti i ladri sono innamorati di Rosita, e io anche. I ladri sanno fischiare, scendere da un’auto in corsa e ballare il valzer. Amano prima di tutto la loro vecchia mamma e quando lei gli muore cantano un tango, piangono senza consolazione e tra le cose lasciate da dividere tra i fratelli scelgono per sé una madonnina d’argento e il canarino.
Eccoli qui, di mattina, col berretto calcato sulle orecchie hanno appena svaligiato l’asilo delle suore.
Dilapideranno quei soldi con donne e altri malandrini dentro catapecchie e osterie alla milonga e nei bordelli
ascolteranno i tanghi di Pracanico e nella loro pena, a forza di dai e dai sogneranno di essere Rocambole per le ragazze del Giardino Botanico
qui il payador del Parque Gol gli righerà le gote di lacrime cantando versi di sangue, morte e amore alla maniera di Olivari
Di notte, con il nebbione andranno a spassarsela in giro con quelle pettinature unte che cantava Carlos de la Pua
e sono umani, disumani fatalisti e sentimentali innocenti come animali e canaglie come cristiani
Nessuna angustia li lacera ognuno vive come vuole quando la madre gli muore mettono il lutto alla chitarra