Ai romanticoni in ascolto di questo programma spero non sia sfuggito il disco che Vinicio Capossela ha rilasciato nell’ultimo giorno di San Valentino, giorno fatidico di baci e di stragi. Bestiario d’amore, si chiama, un capolavoro concentrato di romanticheria e d’inattualità dato che Vinicio mette in musica un testo che ha quasi 800 anni, Li Bestiares D’Amours, il Bestiario D’Amore, di Richard De Fournival, scienziato, astronomo, alchimista, chirurgo, e soprattutto poeta e troviere. Anche lui come poi Whitman, Bob Dylan e lo stesso Vinicio, conteneva moltitudini.
Nel suo Bestiario D’Amore, Richard De Fournival osserva gli uomini quando sono sotto l’imperio dell’amore, quando cioè sono alla mercé della passione amorosa e li compara nel comportamento al comportamento degli animali, animali d’allora, animali d’epoca, come donnola, piviere, gru, pellicano, aspide, o anche animali fantastici, il drago, la sirena, l’idra, l’unicorno. Si tratta ovviamente dell’amore galante, dell’amor cortese cantato dai poeti provenzali in versi di più o meno undici sillabe, poeti capaci d’immagini e di simboli delicati, pozze d’acqua lustrale, cavalieri che incedono inastati verso la torre che rinchiude una damigella. Il tutto mentre lì attorno si promuovono crociate e s’inventano device come la cintura di castità.
Paragonare i molti moventi amorosi dell’uomo a quelli degli animali è possibile anche in questi tempi moderni, così espliciti, quelli dell’amore ben imitato, anche se, come dice Tiziano Rossi, oggi non è facile contattare il famoso unicorno. Fare la civetta, il pavone, il pesce lesso, questo sì, sono espressioni comuni. Quante volte ci avranno attribuito l’attivismo del riccio, la rapidità del coniglio, la fantasia del maiale, le prestigiose credenziali del somaro. Meno frequente è l’opposto: nessuno si sognerebbe di insignire un rospo o un verme della bellezza e della sinuosità di un ballerino nostro rivale, nessuno aspira alla carica di cagnolino pechinese. Nessuno, tranne Edmundo Rivero in questo tango intitolato appunto “Tu perro pekinés”.
E’ un unicum, un tango registrato soltanto una volta, da una sola orchestra, in questa sola versione perfetta, non migliorabile. E’ Aníbal Troilo, nientemeno, a inciderlo il 28 febbraio 1948, nel corso della settimana santa in cui incide, tanto per dire, SUR, uno degli inni sacri del tango. L’orchestrazione, probabilmente, è di Argentino Galván, come lo sono le orchestrazioni di questo periodo. Ismael Spitalnik subentrerà più avanti, in ottobre, con quell’opera d’arte compiuta che è Ojos Negros. Lo stile di Galván lo si può riconoscere dal trattamento degli archi, dal pizzicato, dall’uso del violoncello, ma anche lo stile potrebbe essere ben imitato.
Testo e musica sono di Luís Rubistein, un personaggio da conoscere. Suo padre è un ciabattino russo che scappa dalla miseria e dai pogrom zaristi agli inizi del 900. Luis, il cui vero nome è Moishe, è il terzo di dieci figli. E’ uno scavezzacollo, non va oltre la terza elementare, impara a scrivere e a suonare la chitarra da autodidatta, ha una voce discreta, per un periodo canta persino con D’Arienzo. E’ uno che si fa da solo e si fa in compagnia perché sguazza nella sfrenata bohème degli anni ’20. I suoi tanghi vengono incisi sia da Gardel sia da orchestre che non vanno troppo per il sottile in materia di poesia. Testi brutali, rime che si baciano a forza di scapaccioni, ma alcuni hanno una grazia quasi involontaria: Olvido, ad esempio, oppure Cautivo, sentitelo nella stupenda versione di Goyeneche col Sexteto Tango. Rubistein è anche un genio dello show business, fonda un’agenzia di edizioni, di booking, fornisce contenuti per la radio, cantanti, musicisti, comparse per il cinema. Il critico Julio Nudler la chiama la Holding Tanguera. Le dedica un capitolo del suo libro Tango Judío. Anche Nudler è un estimatore di Tu perro pekinés. Siamo una piccola setta, Felix Picherna era un altro adepto, l’ha messo su qualche volta alla milonga. A me l’ha fatto scoprire il cineasta Alejandro Agresti, è il suo tango preferito di sempre, per il valore cinematico. Vediamo allora cosa succede in questo film.
I titoli di testa sono tutti dell’orchestra, che è morbida e canterina, come sempre quella di Trolio. Il tempo si allargherà e si restringerà per tutto il tango con una naturalezza che oggi è sovrannaturale. Suona bendisposta verso il protagonista, il pugnale è di quelli teatrali, a lama retrattile. Sentiamo però il racconto in prima persona:
Stavo morendo di fame e di freddo quando ti ho vista passare, cuore mio eri sull’auto che era mia con la pelliccia di visone.
Immaginiamo che anche il visone fosse suo. Nei tanghi, le pellicce sono articoli che non vengono mai restituiti alla fine di una relazione. I tuoi occhi hanno incrociato i miei ma non ho visto nessun imbarazzo, non sei arrossita io, o quello che rimane di me, ha tremato tutto e il tuo cane mi ha abbaiato. Ora passiamo a vedere l’autista. C’è bisogno di una rima con pekinés - che sta per arrivare. L’autista potrebbe essere indifferentemente bolognés, milanés, ma Rubistein opta per japonés - il che aumenta il coefficiente di orientali del pezzo.
Autista giapponese della macchina che è un jet (avión a chorro, chorro in lunfardo è ladro) e tu accarezzando il musetto del tuo cagnolino pechinese. La vita a volte si accanisce e a sangue freddo mi regala l’ironia di questo quadro fatto a rovescio. Mi piacerebbe così tanto avere per questo mio freddo spaventoso il rifugio di seta del tuo cagnolino pechinese. C’è ora un intermezzo orchestrale, il violino, il pianoforte e il bandoneón commentano la situazione come fossero tre passanti, si avverte una certa solidarietà con lo sfortunato narratore, il quale dà delle spiegazioni. Per te ho perso una fortuna dopo che ho perso il tuo amore e oggi, vedi, abbaio alla luna come un cane come il tuo cane pechinese. Ora si ripete il ritornello e qui Rivero e Troilo fanno una finezza delle loro. Ci fanno sentire l’auto che si allontana dolcemente, come mercurio nel termometro, con un pianissimo e un crescendo su Autista giapponese, eccetera eccetera.
Titoli di coda sull’uomo che rimane in mezzo alla strada, guarda i fanalini diventare puntini rossi, la luna, il freddo, la fame, ma c’è anche una sensazione di calore momentaneo nel ricordo dell’amore.
Una delle cose più straordinarie di questo tango è che lo canta Edmundo Rivero. Avete presente Rivero: un uomo tutto d’un pezzo, stabbiato col falcione, si dice dalle mie parti. E’ la personificazione della dignità, dell’altezza morale, severo, incorruttibile. Militare nei granatieri. Come artista è uno stilista eccelso, chitarra di livello concertistico, studioso del lunfardo e del folklore. Solo gli amici possono chiamarlo Lionel, suo secondo nome, ma è soprannominato da tutti El Feo, il Brutto. Ha dei grandi connotati, testa grande, un nasone, grandi manone. Una voce profonda da Mefistofele, capace però di una gamma sconfinata di sfumature. Non ha avuto una carriera facile, era così brutto che non lo trasmettevano neanche per radio. Così, dopo aver cantato gloriosamente con Salgán, si barcamena nel repertorio chitarristico, di sopravvivenza. Lo chiama Troilo, passano una sera a parlare e a cantare. Troilo lo invita nella sua orchestra, un’occasione d’oro per Rivero, che risponde: ne sarei onorato. Ho una sola richiesta. E a questo punto Troilo fa l’occhio duro, da gallina, per restare in tema, si aspetta una richiesta economica esorbitante. No, dice Rivero, vorrei che lei mi desse un repertorio da cantare adatto a me. Facile. Il primo anno, nessun problema: Troilo lo alterna con Floreál Ruiz, gli dà da cantare temi bellissimi, nobili, addirittura Los ejes de mi carreta, di Atahualpa Yupanqui. E poi, naturalmente, SUR. Ma pochi giorni dopo arriva questo Tu perro pekinés.
Ora, io sono un tipo facile da convincere, sospendo subito l’incredulità, al cinema, in teatro, mi arrendo subito, mi piace persino passare per un gil. Ma Edmundo Lionel Rivero, lo smisurato Rivero, non riesco proprio a vederlo raggomitolato sul sedile di una macchina, con una mano femminile che gli accarezza la coppa, la vasta coppa di Rivero. Ecco, è questo che mi emoziona e mi commuove di questo tango insensato, la dedizione di questo artista fuoriserie che fa di tutto per farmelo credere.