Più di un secolo fa, un certo Sigmund Freud dissolse il mito dell’origine organica della psiche, dimostrando una volta per tutte che la produzione di cicatrici è la vera forma in cui la società si realizza nell’individuo. Ma la stessa psicanalisi, privata dei suoi impulsi critici radicali, si è poi rivelata come una specie di previdenza sociale finalizzata a una sana soluzione dei conflitti dell’io. Insomma, poco più di un massaggio, come diceva Horkheimer. Alla fine della fiera, il “Disagio della civiltà” è risultato essere colpa dell’uomo, della sua inadeguatezza e dei suoi brutti difetti. Un bel giro di frittata, non c’è che dire. Per contrastare la critica psicoanalitica, i padroni di ogni cosa non hanno certo dovuto rimboccarsi le maniche. Anzi, assicurando loro delle piccole indennità, hanno potuto facilmente ribaltare sui poeti l’ambiguo compito di cantare, dopo il dolore delle ferite, il dolore delle cicatrici.
In ogni parte del mondo si è detta poesia civile quella che si batte contro la produzione di cicatrici tradizionali, ossia quelle esterne, mentre poco o nulla si occupa di quelle interne. In Argentina, per esempio, tutto il cosiddetto colloquialismo impegnato degli anni ’60 aveva ben altro da mettere in versi che una roba per piccoli borghesi come l’inconscio e i suoi drammoni. In quegli anni, del resto, i massacri, le torture, la picana elettrica, prima ancora di scalfirti il dentro, ti liquidava il fuori. Più tardi, l’orrore e l’esilio hanno fatto capolino e danni anche sotto il soma dei poeti, trapassando i confini delle loro superfici, oltre ogni giurisdizione, diritto o statuto speciale.
Molti sono arrivati spompati sul nuovo, per loro, campo di battaglia. Non così Juan Gelman, che ha sempre sentito la poesia come una ferita permanente, che non rimargina mai. Sbatacchiata tra la realtà brutale e l’inconscio mostruoso, la poesia cicatrizzata riproduce in pubblico le mansioni doppiogiochiste di quel povero diavolo dell’io: agente infiltrato del “preteso maggiore” da una parte e sussurrante portavoce della mancanza dall’altra. La poesia di Gelman, invece, rifiuta suture e consolazioni perché il dolore che porta è inconciliabile con la falsità del mondo e i suoi sempre fedelissimi specchi interiori. Così scriveva in una delle sue ultime poesie intitolata Musiche:

Narciso aveva fame, guardò
nelle acque per vedere se c’erano pesci
e incontrò se stesso.
Questo incidente della storia
costa mondi interi ai poveri mortali.
Hanno fame di se stessi, ma in verità
non guardano mai se stessi, sono guardati e da ciò
viene l’abitudine di
divorarci sotto
un sé stesso preteso maggiore.

Ora, per quel che riguarda il quadrante balcanico, magari avrà anche ragione Montale nel dire che “è impossibile che ci sia un grande poeta bulgaro”, ma nell’emisfero australe, in particolare in Sud America, queste disposizioni non attecchiscono: qui la geografia è una scelta, più che una circostanza. Si è, perché si vuole essere, argentini, cileni, peruviani. Così Juan Gelman nasce accuratamente a Buenos Aires nel 1930. Da bambino lo chiamano “taquito”, ossia colpo di tacco, perché fa tutto, persino studiare, con facilità e disinvoltura, come se non gli importasse.
Nel 1956 Manuel Gleizer, ultimo romantico tra gli editori, gli pubblica il primo libro di poesia “Violín y otras cuestiones”. Raúl González-Tuñón segnala nel prologo il lirismo e l’impegno sociale di una poesia che profuma di Verlaine, Vallejo, Quevedo e meno sorprendentemente di Evaristo Carriego e Celedonio Flores. “Juan Gelman è un poeta intimamente nostro, nazionale, porteño, di Villa Crespo, del Club Atlanta, Huboldt 540”, scrive González-Tuñón, con precisione concentrica.
Gelman frequenta il Gotán e quei giovani poeti e musicisti per i quali la poesia è uguale alla vita e la vita è uguale alla rivoluzione. Legge i suoi versi nei primi reading che si fanno a Buenos Aires. In sottofondo non c’è il bop di Charlie Parker, ma la nuova canzone d’autore di Juan Cedrón e soprattutto il bandoneón e il tango di César Stroscio.
“Madrugada”, disco del 1963, ci restituisce la sua voce che sa di malva, di sterrato, di sigaretta Parliament. Forse la poesia non raddrizzerà le colline, ma rende meno trionfale il cammino della pestilenza. L’illusione dura poco.
Nel decennio successivo, ecco la smentita e stavolta è irreparabile: i militari sequestrano e uccidono suo figlio e la moglie incinta. La nipotina, fatta nascere nelle prigioni della dittatura, viene affidata a una coppia uruguaiana. I resti dei genitori non vengono mai rinvenuti, la nipotina sì, dopo 23 anni di ricerche e appelli internazionali.
L’esilio per Gelman inizia nel 1976. “Il cavallino delle giostre / mi ha visto così solo / che è venuto via con me”, scrive, senza mai smettere di essere poeta.
Negli anni a venire i suoi libri verranno tradotti in molte lingue e non mancheranno i riconoscimenti: il premio Mondello, il Lerici Pea, il Regina Sofia, il Booker Prize, il Juan Rulfo, il Pablo Neruda.
Dei primi anni ’80, con il bandoneón di César Stroscio incide un disco intitolato “Ruiseñores de nuevo”: dopo tanto orrore di nuovo gli usignoli. La poesia che apre la raccolta s’intitola “Mujeres”, donne. In realtà parla di una sola donna, una soltanto, che però ne contiene una moltitudine.
Era un’alba di alghe fosforescenti, una Singapore piena di cani ululanti, una costellazione di rose d’Agadir, una banda municipale stonata, un orologio che andava a rabbia. Non sapevi con quale avevi a che fare tra queste migliaia di donne. Accendevi i giorni nel suo sesso tremante, la facevi volare come il passerotto delle lenzuola e lei la mattina dopo si svegliava parlando di Malevič.
I versi che concludono la poesia sono molto toccanti. Ora il poeta si rivolge ai suoi compagni d’esilio e nelle sue parole si avvertono le durezze dello spaesamento, le minacce di un cielo basso di baldacchino, l’incertezza e il pericolo. Dice:

Io compagni, una notte come questa che
ci infradicia i volti e forse moriamo
sono salito sul cammello che mi aspettava nei suoi occhi
e mi sono allontanato dalle coste tiepide di quella donna
silenzioso come un bambino sotto i grassi avvoltoi
che mi mangiano tutto, meno il pensiero
di quando lei si riuniva come un ramo di dolcezza
e lo gettava nella sera.

La poesia ora è finita, il poeta ha riaperto ancora una volta in pubblico le sue ferite, i ricordi sono un assedio doloroso. A questo punto la parola passa a César che fa quello che qualsiasi porteño, qualsiasi tanguero avrebbe fatto se si trovassero non in un esilio feroce, ma al sicuro, in un “cafetín de Buenos Aires”, cioè lo prende in giro. Gli suona Amurado, messo al muro, come si dice in lunfardo quando una donna, individuale o multipla che sia, ti lascia. Vedete, cari compagni e compagne di Radio Tango Macao, in questo accostamento osceno tra drammaticità e ironia, c’è una delle ragioni per cui il tango è una musica degna di essere vissuta. Non importa quello che ci fa la vita, la circostanza, la fattispecie della sventura, non importano le fiamme che dobbiamo attraversare, il tango ci insegna a ricercare sempre l’eleganza della sprezzatura, a giocare la nostra partita de taquito, a colpi di tacco.

Dire che quella donna era due donne era dire poco
dovevano esserci un 12397 donne in quella donna,
era difficile sapere con chi aveva uno a che fare,
in quel paese di donne, per esempio:
giacevamo in un letto d’amore
lei era un’alba di alghe fosforescenti,
quando stavo per abbracciarla,
si convertì in una Singapore piena di cani ululanti, ricordo
quando apparve avvolta di rose di Agadir
sembrava una costellazione in terra
sembrava che la Croce del Sud si fosse abbassata alla terra
quella donna brillava come la luna con la voce destra,
come il sole che tramontava nella sua voce,
nelle rose c’erano scritti tutti i nomi di quella donna meno uno,
e quando si girò, la sua nuca era il piano economico
migliaia di cifre e il bilancio delle morti favorevoli alla dittatura militare.
Nessuno sapeva dove andava a parare quella donna
io ero leggermente sconcertato, una notte
le ho toccato la spalla per vedere chi era
e vidi nei suoi occhi un cammello, a volte
quella donna era la banda musicale del mio paese
suonava dolci valzer finché il trombone non cominciava a stonare
e gli altri a stonare con lui
Quella donna aveva la memoria stonata,
tu potevi amarla fino al delirio
farle crescere i giorni dal suo sesso tremante
farla volare come il passerotto delle lenzuola,
il giorno dopo si svegliava parlando di Malevič,
la memoria le andava come un orologio a rabbia.
Alle tre del pomeriggio si ricordava del mulo
che l’aveva scalciato l’infanzia nella notte dell’essere
“leiava” molto, quella donna,
era la banda municipale del mio paese.
La divorarono tutti i fantasmi che potè
alimentare con le sue migliaia di donne,
ed era una banda municipale stonata
che camminava all’ombra nella piazzetta del mio paese.
Io compagni, una notte come questa che
ci infradicia i volti e forse moriamo
sono salito sul cammello che mi aspettava nei suoi occhi
e mi sono allontanato dalle coste tiepide di quella donna
silenzioso come un bambino sotto i grassi avvoltoi
che mi mangiano tutto, meno il pensiero
di quando lei si riuniva come un ramo di dolcezza
e lo gettava nella sera.