Entriamo in questa puntata passando dalla porta del cinema con la straordinaria esecuzione di un Roberto Goyeneche, ridotto quasi a dicitore dalla generosità con cui si è offerto alle tentazioni più terrene. Il film in sala si intitola Sur e lo ha girato Fernando Pino Solanas nel 1988, conquistando la Palma d’Oro a Cannes e realizzando una delle più emozionanti pellicole in cui il tango è cornice ed insieme essenza metafisica. Questa affascinante scena notturna attraversata da una luce blu che illumina un selciato empedrado, che si svolge nell’esquina dove si affaccia il Cafè del Sur realmente esistente nel barrio di Barracas dalle parti della stazione Hipólito Yrigoyen del ferrocarril Roca. Con El Polaco suona Nestor Marconi il bandoneonista che lo ha accompagnato mille volte sin dai tempi del Caño 14. Questo piccolo tempio del miglior tango, tra il 1965 e per circa venti anni in diverse sedi, fu il risultato della conversione di un ristorantino locale per la volonterosa iniziativa del pianista Atilio Stampone, sostenuta dal socio Rinaldo Martino, un ex calciatore che ideò quel nome facendo una sorta di collage tra caño, che in lunfardo rappresenta uno di quei tubi dal diametro sufficiente a ricoverare i senzatetto, e il 14 che simbolizza il borracho nella quiniela. Marconi è spesso ospite del locale alla fine della decade del ’60 trascorsa a raccogliere i suoi freschi allori nell’eccellente orchestra diretta da Josè Basso, ex pianista di Troilo e di Piazzolla, che si esibiva “todos los días, en lugares como el Marabú o el Maipo”. Vi approda quasi ventenne restandovi una decina d’anni, e decidendo infine di seguire la strada che sentiva più congeniale, non coincidente nel parcheggiarsi in una fila di bandoneones e poi in un’altra e così via fino a formare una tipica. I suoi interessi lo spingevano a “no depender de ninguna orquesta”, per sperimentare in maniera personale non l’ignoto o semi-ignoto, quanto quelle “posibilidades distintas para hacer sobre el tango”, irradiate dal pensiero musicale di Piazzolla. Piazzolla che con Federico, Troilo e Laurenz sono i punti cardinali che guidano la destrezza da trapezista con cui maneggia il bandoneon. Addirittura troppo vertiginosa così come i suoi arrangiamenti più azzardati, costruiti con una ferrea interpretazione del contrappunto che non è avulso definire di scuola. Questo approccio mentale, celebra la sua sapienza armonica risultando poco equilibrato con il talento nell’inventiva melodica, e il contraccolpo pregiudica il feeling e quindi il brivido da piloerezioni che sempre, anche solo in una frase, Piazzolla riesce a trasmettere. Per molti anni la melodia nella sua musica non giungeva con l’incisività a cui ci ha abituati il tango, dando l’impressione di essere di fronte a un pecho frio che alla domanda cruciale di Aristosseno, avrebbe risposto di credere nella musica come espressione della tecnica e non dell’anima. Dopo “Pepe” Basso è incaricato dal pianista già troileano Josè Colangelo di arrangiare e suonare con il suo nuovo cuarteto che, alla moda dell’epoca riportava in auge la chitarra, in questo caso si trattava delle sei corde auree di Anibal Arias. Con loro tre c’era il gran contrabbassista Omar Murtagh, il cui strumento aveva quella particolare sonorità in quanto accordato per quinte come il violoncello che lui suonava abilmente. Gli arrangiamenti di Marconi sono proiettati nell’ambito ristretto dell’avanguardia tanguera e tra essi colpisce quello di La Yumba che è un palese omaggio al nuovo testamento di Astor Piazzolla. Diverse idee sembrano ben riuscite e fondate da un ragionamento strutturale raffinato che non è certo, diciamo così, di mezzo carattere. Un esempio tra tutti riguarda l’introduzione che con un pattern ripetuto sei volte anticipa la natura ossessiva del motivo di Pugliese, prima con un progressivo ingresso degli strumenti, quindi terminando con una dinamica forte che conclude in una nota tenuta e una strappata del contrabbasso. Da lì si affaccia la prima esposizione del tema originale, con una dinamica esile tenuta dal registro acuto della mano destra del bandoneon tutto solo in forma di domanda a cui risponde un omoritmo degli altri tre strumenti. Quindi parte un marcado en cuatro che non ha nulla a che vedere con quel particolare modo pugliesiano di scandite la pulsazione denominato yumba, proprio per lo stretto legame con il suo manifestarsi nella prima versione registrata di questo brano. Inoltre Marconi concepisce tutta una serie di modificazioni della melodia dove pianoforte e bandoneon si scambiano o si sovrappongono a volte anche con la chitarra. Ci sono due curiosità che riguardano il solo di Colangelo. La prima è che lo suona in maniera jazzistica a block chord, vale a dire armonizzando tutte le note del suo intervento, come succede per esempio negli special della sezione di fiati in una big band, o nello stile pianistico di George Shearing, per non parlare del Paradiso nominando il Bill Evans rapsodico della maturità. La seconda è che ad un certo punto, intorno al minuto e cinquantacinque secondi, spunta una lunga citazione del tema di Ojos Negros. Marconi che anche in questa yumba non yumba, o meglio yumba senza yumba, esplode una raffica di note come sa far lui. Al Caño 14 oltre il cuarteto di Colangelo, passavano tutti i musicisti più importanti di tango e tra gli altri, si poteva assistere alle evoluzioni del funambolico violinista Enrique Mario Francini che nel 1978, proprio su quel piccolo scenario ha fatto la migliore fine che può immaginare un musicista: essere rapito da Atropo, la terza e inesorabile Parca, suonando…e nel suo caso nel bel mezzo di Nostalgias, improvvisamente e a soli 62 anni. Lo ricordo perché proprio gli incontri in quel locale erano serviti a Francini per valutare le qualità di Marconi sia come bndoneonista che come arrangiatore, convincendolo ad ingaggiarlo per il suo nuovo sexteto che avrebbe inciso nel 1970, da qualche anno ristampato in cd dalla CBS in una collana dal titolo eloquente: “la resistencia del tango”. In quello splendido LP è contenuto un bellissimo tango di Francini intitolato Tema otoñal arrangiato da Marconi che ha mano libera per mettere a frutto tutte le sue conoscenze. Non ne dimentica nessuna, inserendo alcuni intrepidi cromatismi armonici e la strategia di ridisegnare la linea melodica del tema attraverso fratture fraseologiche che la scompongono o, in qualcuna di queste tessere, la trasfigurano. Tutto è ben congegnato sul piano formale, tuttavia la missione sembra essere progettata su un algido tavolino contrappuntistico, tenendo per buona qualche concessione a certi rigurgiti dell’impronta piazzolliana che riscontriamo in passaggi accompagnati dal bajo caminante. La formazione ha un organico di colore particolare perché presenta due violini, oltre Francini Josè Sarmiento, il cellista Enrique Lannoo, il pianoforte di Omar Valente, il contrabbasso di Ramon Arias e il bandoneon di Marconi a cui seguì Dino Saluzzi. Voglio sottolineare come l’ascoltare e il riflettere su questi lavori che appaiono così lontani rispetto all’oggi, non è affatto un’uscita fuori tema dall’obbiettivo di illustrare e promuovere il tango contemporaneo che è il protagonista di questa serie di incontri, bensì il viatico propedeutico per comprenderne come i suoi presupposti sono ereditati da queste opere stranianti e in alcuni casi ereticali. Uno di questi casi vede il nostro Marconi insieme al valente pianista Omar Valente, direbbe Groucho Marx, e al contrabbassista Josè Acosta, protagonista del Vanguatrio. Come suggerisce il nome, le aspirazioni sono quelle di entrare nel cerchio magico della vanguardia, disegnato con compassi diversi dalla magnifica audacia di Rovira e Piazzolla. Da quell’epoca e forse fino ai giorni nostri, bisogna ricordare che in questo solco si sono inseriti altri più modesti puro sangue ma con le carte in regola, illuministi, coraggiosi e soprattutto inconsapevoli del fallimento che il milieu conservatore avrebbe loro riservato. Beninteso che la tribù dei volenterosi ma modesti, dei modaioli e dei fraintenditori che si sono affrettati a comperare arrangiamenti di Piazzolla a buon mercato leggendoli come abitualmente facevano con Mozart o altri divini, è vasta e multi kulti. Il Vanguatrio, che figura nella categoria degli eccellenti, nel 1975 registra il suo primo album dove, oltre ai rifacimenti molecolari di alcuni classici, figura la composizione Tema para tres firmata da Valente e Marconi. Qui l’ombra di Piazzolla non è solo un sospetto ma si percepisce da analogie che sentiamo risuonare con diversa nobiltà, nella struttura, nel virtuosismo, nel ritmo. Strutturali per il contrasto tra il tema principale molto ritmico e il ritornello declinato con dolcezza di bonbon in un adagio; virtuosistiche per la sfrenata variazione finale del pianoforte e soprattutto di Nestor “Quickhand”, soprannome che ho maldestramente inventato ricordando i miei peccati rock di gioventù e invertendo il soprannome di un leggendario chitarrista come Eric Clapton passato alla storia come “Slowhand”; ritmiche per una certa modalità di posizionare gli accenti e l’utilizzo della formula del bajo caminante, introdotta da Piazzolla come parafrasi rioplatense dello swing. In alcune frasi di questo arrangiamento marconiano i prestiti sono impassibilmente esibiti, sfiorando il plagio di una composizione che Piazzolla ha scritto nel 1962 intitolandola Fracanapa, non solo per la pulsazione, il bajo caminante, gli accenti, ma anche per la stessa modulazione armonica all’interno della frase. Il tribunale avrebbe dovuto confrontare questi due frammenti se Piazzolla si fosse rivolto a lui per essere ricompensato dal plagio. Però non lo ha fatto, nonostante l’arrangiamento di Marconi in questo scorcio possa ricondurre ragionevolmente a quello di Astor, perché sapeva benissimo che il bandoneonista rosarino sarebbe stato assolto a causa di un motivo preciso: sull’arrangiamento non si esercita il diritto d’autore che è a completo appannaggio del DNA di una composizione: la melodia. E qui, le melodie dei due frammenti simili, sono diverse. Confezionare un arrangiamento con parti che sono molto somiglianti a quello ideato da un altro musicista, possiamo ascriverlo più al nutrito capitolo delle cadute di stile a cui non sfuggono anche illustri compositori accademici. A questo proposito va detto che Piazzolla apre le finestre della sua musica ad un’aria troileana e decareana, oltre che a tutti gli elementi ritmici mutuati dal genere, ma la sostanza è tutta sua quando restiamo nel territorio del tango e non prendiamo in considerazione i tessuti armonici delle sue musiche da film, quelli dei suoi quartetti d’archi e di molte delle sue opere orchestrali. Per assurdo e molto borgesianamente, Piazzolla usa un altro genere di plagio: quello verso sè stesso, autocitandosi e identificando il suo stile anche attraverso questi oggetti sonori ricorrenti. Dopo questa divagazione ritorniamo al nostro Vanguatrio di Nestor Marconi e al citato Tema para tres. Il test dell’ascolto aiuta a farsi un’idea della scatenata scioltezza tecnica del leader, che non ha niente da invidiare a quella sfoggiata da Astor con un’agilità che sfiorava l’insolenza, nei torrenziali assoli registrati con l’ Octeto. Chissà se ascoltando l’impresa di quel bandoneonista di vent’anni più giovane, Astor è stato oggetto di uno dei sui proverbiali attacchi d’invidia con i conseguenti sfoghi biliari! Ma Marconi, è un piazzolliano traditore in quanto ascolta e cattura le novità sperimentali che si sono affacciate nel tango. Per esempio in una sua versione dell’arcaico Ojos negros, Marconi sembra avvicinarsi all’estetica roviriana per il tessuto sonoro a cui provvede un quartetto d’archi d’eccezione con Enrique Francini e Antonio Agri ai violini, Mario Lalli alla viola e Oscar Lopez Echavarria al cello, inserito nel settimimo completato da Marconi al bandoneon, il solito Oscar Valente al piano e un contrabassista che diventerà il pilastro del quinteto di Astor Piazzolla, Hector Console. In alcuni impasti armonici il suono che scaturisce è molto vicino a quello di Hombre de tango tratto dalla suite Tango Buenos Aires Opus 4, registrato nel 1962 da Rovira. Marconi utilizza lo stesso criterio per configurare delle successioni cromatiche con ardue combinazioni di accordi, alcune proibite nei trattati e perciò aggressive. Ci pensa la sottigliezza della scrittura a fungere da antinfiammatorio il cui principio attivo è la cura del timbro e la transitorietà dell’effetto. Alcune soluzioni strutturali aggiunte, non appartengono alla forma del brano di Vicente Greco e sono utilizzate per giustapporre continuamente un’idea da quella che segue, mentre la melodia originaria appare solo per brevi tracce e in maniera inattesa….insomma tantissima carne al fuoco in questa registrazione del 1976 che nella sua abbondanza risulta un po' kitsch, ma sappiamo come questa categoria del gusto novecentesco può essere deliziosa.
31 agosto 2020
Nestor Quickhand
di Franco Finocchiaro
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