Sono passati quaranta anni da quella fatidica notte del 1956, ma Juan Luis Borges ne porta ancora il ricordo come un tatuaggio. Davanti ai vecchi milongueros che ogni martedì pomeriggio si riuniscono al Caffè El Escabio per dare la stura alla fanfaretta della memoria, Borges rievoca la grande inaugurazione della Milonga Boulevard, evento clou della stagione mondana di Boedo Buenos Aires. Lui della gang Jeunesse Dorée di Florida non è stato invitato, ma prova lo stesso ad entrare esibendo il salvacondotto, risultato poi apocrifo, di Ambasciatore dell’Accademia Nazionale del Tango. E dire che l’aveva comprato dall’Ambasciatore in persona. Buttato fuori a pedate dal guardapista Monk Eastman, finisce nella spazzatura. Più tardi cerca di introdursi nella milonga passando stavolta dalla finestrella del bagno. Il racconto di Borges riprende da qui, dai componenti sanitari di cui l’imprecisa clientela della Boulevard ha fatto un uso improprio, a giudicare da quel che galleggia nel lavandino. Ma è arrivato il momento di entrare in scena.

L’evasiva gioventù di oggi non può capire l’emozione che il milonguero patentato provava nel mettere piede in un’autentica milonga dell’epoca d’oro. In quei primi, vertiginosi istanti si concentravano:
identificazione acustica dell’orchestra;
accurata investigazione demoscopica dell’ambiente e successiva radiografia del settore abbigliamento e accessori;
percezione della ragnatela degli sguardi, minacciosi quelli dei rivali, possibilisti quelli dei partner;
inalazione dei profumi e degli aftershave in voga, la cui altruistica aspersione contrastava, e solo in parte modificava, l’emissione degli acidi della serie aromatica;
ispezione e carotaggio dei migliori posti disponibili;
illusoria opzione dei medesimi;
perorazione, discussione e rissa finale con il capo cameriere.
E’ pur vero che un habitué della milonga, il classico parroquiano, domina i suoi sentimenti e dissimula il suo comportamento esteriore. Senza andare troppo lontano con l’esempio, il sottoscritto internamente ribolliva come un vulcano mentre fuori si muoveva con l’autorevole circospezione del bradipo. A Boedo godevo di un’indiscutibile cattiva stampa e paventavo le sanzioni delle autorità soprannominate istituzioni, le quali, come è noto, non sono inclini per temperamento al duplice lassismo dell’ascolto e della comprensione.
Così mi aggiravo nel locale con la cautela fornita dai reumatismi e, senz’altra giacca di velluto nero che il mio gilet di lana a quadrettini, facevo il milite ignoto vicino allo specchio funzionante, in modo da tener sottocchio di rimbalzo il panorama coreografico.
Ormai la pista era affollata come il night-club di un sottomarino il sabato sera. Alla danza cuneiforme dei milongueros dava spago il tango seriale “El Dodecafónico”.
Devo ammettere che l’orchestra di Walter Piston scoppiava di salute, era una meraviglia ad orologeria. In più con l’acquisto del simmetrico Barletta al primo bandoneón, la sezione dei mantici spingeva più degli assistenti di Ironside.
Da quando il tango milonguero era stato rifatto come il paletot di un trisavolo, quelli di Boedo si credevano delle celebrità, si facevano largo a mujerazos, cioè a donnate tra i pochissimi sconosciuti. Quelle voci plasmate dal silenzio delle biblioteche arrivavano fin lì, come portate dalla risacca: perché non guarda dove va, insigne ballerino? Ho pestato di meglio, provvidenziale pedagogo.
Improvvisamente l’esecuzione di “Tutti Frutti" segnalò il termine della tanda di tango. E allo sciogliersi degli abbracci il mio cuore esultò: Estela Kantor, la mia prescelta, aveva ballato con Olivari, come dire con Scaramacai. In attesa dei promettenti sviluppi, sgusciai in prossimità del loro tavolo, mentre le luci andavano spegnandosi nel locale. Mi attestai su uno sgabello del bancone e con il favore delle tenebre assaggiai un cocktail rimasto temporaneamente sguarnito. Dal sapore doveva trattarsi di uno Scarabeo.
Una voce da dietro mi fece sobbalzare, non la riconobbi subito:
- Vuole fare una donazione ai nostri orfanelli con le gambe storte? - mi aveva sussurrato.
- No grazie, buon uomo. Niente merca stasera, potrebbe esserci l’antidoping - avevo risposto senza girarmi.
- Ma guarda un po’ chi c’è. Borges, la lascio mezz’ora fa coperto di torsoli e ora è qui che beve come un mattone di seconda. Stasera fanno entrare anche i poveretti. Come sta il Cenacolo dello Scrocco della Richmond?
- Rilevo con piacere, dottor Savastano, che l’accoglienza cimiteriale della critica al suo romanzo mondo “Piove su Chascomous” non le ha tolto dalla, chiamiamola faccia, quel sorriso al metacrilato che è il marchio d’onore del suo meccanico dentista - e giù un altro sorso di Scarabeo.
- L’unica recensione è stata la sua, Borges. La ricordo bene in ogni dettaglio: una fiumana di parole che scorrono a malincuore dentro le camicie di forza di sintassi, grammatica e senso compiuto, tra ricercati strafalcioni, cervellotici neologismi e confusionismo lirico.
- Si consoli Savastano. Più o meno lo stesso era stato scritto del Finnegan’s Wake. Infatti è da lì che l’ho presa. La consideri un’evoluzione dell’epitaffio. Ma un ginnasta dell’alfabeto come lei, che tutti i giorni si allena a decifrare quei bisciolini neri sul mio rotocalco, saprà che in letteratura la sincerità è tutto. Se non le riesce di fingerla è meglio che passi al giornalismo culturale, come ho fatto io.
Anche nell’oscurità potevo vedere gli occhi che gli lampeggiavano come la spia della riserva:
- Due strategie obsolete, l’ipocrisia e le buone maniere hanno nascosto per secoli gli orrori che ci vengono in mente. Per adesso mi limiterò a passarle il dato: un uccellino mi ha detto che la vogliono in biglietteria seduta stante.
La mia prima reazione fu di chiedere alla terra di inghiottirmi, ma non mi persi d’animo e sfoderai una citazione di Macedonio Fernández.
- Con la scusa che non posso esibire un titolo d’entrata valido, va a finire che mi faranno pagare il biglietto una seconda volta, se non addirittura la prima. Mi spiace contraddire il suo uccellino, sia detto senza offesa, ma non posso perdermi questa spumeggiante tanda di vals.
Proprio in quel momento l’orchestra aveva attaccato “Crimen y castigo” di Rubistein e le coppie si buttavano in pista come inseguite dalle fiamme. Mentre mi alzavo, sentii una forza sovrumana afferrarmi il polso e torcermi il braccio dietro la schiena.
- Dottor Borges, il direttore desidera conferire con lei - disse compitamente Monk Eastman.
Il suo petto era peloso come il pavimento di un barbiere. A stento indovinai un cuore tatuato trafitto da un pugnale e il motto del cartiglio: Todas Putas.
- Non conosco sua madre, ma le credo. Andiamo pure. Mi lasci il braccio, però, che dopo mi serve per ballare.
In meno che non si conti un dito, stavo capitanando da etero diretto il trio più melodioso dai tempi de Los Panchos verso una porta di faesite istoriata con nomi e numeri di telefono che mi riproposi di annotare più tardi. Dentro l’ufficio mi aspettava un vecchio amico:
- L’espressione di stupore non le si addice, Borges. Non è stato lei a scrivere che il tradimento è l’ascetismo più iperbolico, l’infamia più spiccatamente umana e che Giuda è la vera incarnazione del Signore, non quel furbacchione di Cristo che si limitò a un pomeriggio di agonia? Anch’io come Giuda ho cercato la colpa non visitabile da alcuna virtù. E poi mi ero francamente stancato dell’ateneo virile della Richmond. Mucho macho, sì, ma non si batteva mai un chiodo che uno, per restare in tema.
Alto, abbronzato, elegante, sguardo celeste grembiulino, il Piola Casares aveva quell’aria da salumeria cara che hanno i cinquantenni che si tengono in forma. Molte vetrine del centro l’avevano convinto che quest’anno erano così le camicie.
Sotto il naso da medaglione gli stazionavano le tipiche goccioline.
- Veramente è stato l’eresiarca scandinavo Runeberg a scriverlo. Poi, se permette, Dio disponeva delle considerevoli risorse che può offrire l’onnipotenza, mentre lei la vedo al centro di un abituro screditato e malsano, dietro una scrivania raddrizzata da un cavalletto e con alle spalle il calendario dei parmigiano La Martona, entrambi scaduti, mi pare di leggere.
Casares eseguì il suo classico sorrisetto solfidrico.
- Lei ha sempre una rispostina pronta, eh Borges? Comunque l’ho fatta venire qui per farle di persona le mie più sentite congratulazioni per il suo trionfo editoriale.
Mi dica: a quando la tiratura di altre cento copie del suo opuscolo? In pescheria non sanno più con che cosa incartarmi i cefali.
- Congegnare da solo la metafora ittica deve essere stato un lavoraccio per lei, Casares. Quanto al mio opuscolo, lei mi conosce, a me piace soltanto ciò che accade per iscritto.
- Allora non avrà nulla in contrario a leggermi ad alta voce come Sant’Ambrogio ciò che ha scritto qui - sibilò porgendomi un foglio umido d’aspetto tubolare.
- Passato turbolento, presente inquieto, futuro chissà. Cercami, mi troverai. Amo lo sport, Biagi e il Dio Canaro. Tu dolce seguidora, pettoruta, decisamente femmina. Se desideri ore liete alla milonga e anche dopo, scrivimi fermo posta Boedo…
- Altolà. A parte il fatto che non ha risposto nessuno, legga quello che viene dopo, il momento tanguero.
- L’altra sera al Telonero di Avellaneda, tempio del tango bagattellare, il Piola Casares y Silvina hanno presentato una coreografia ispirata, o forse provocata, dall’infernale Verano Porteño. Un birignao di passi incresciosi, calci equini e abbellimenti peggiorativi ne ha costituito il lessico; le ampie carezze del lucidatore di mobili, le ginocchia piegate del trasportatore di bauli, i gomiti aperti del suonatore di grancassa dorsale, le dita spalancate del segnalatore numerico, sono invece le costanti stilistiche di questa coppia patrocinata da San Vito…
- Basta così. Il suo tango da seduto è perfetto Borges. Gli arcobaleni le vengono tutti lunghi. Ma il pingo si vede in pista e il vero milonguero anche. Stasera ci farà l’onore di ballare per noi al concorso. E saremo noi a giudicare lei per quello che sa fare. Vedremo come saprà cavarsela senza le parole, le parolette, senza i suoi fragranti paroloni.
- Non chiedo di meglio, Don Iscariota. Le congratulazioni stavolta gliele faccio io.
Complimenti, lei è fritto. E si è fritto da solo, con le sue stesse mani da lucidatore di mobili.
Quando tornai nel salone, la tristezza mi pesava come un passeggero.

in foto: Davide De Cubellis, “Cortázar