La carriera di Horacio Salgan, seppure decisamente orientata ad esprimere le sue idee sul tango senza mediazioni, non manca di episodi eccentrici che danno forma alla sua versatilità di curioso esploratore, di viaggiatore estemporaneo che sconfina agevolamenti in altri linguaggi musicali. All’inizio degli anni settanta per esempio si unisce insieme ad un altro pianista per un singolare progetto. Il talentuoso collega, forte di tutte le conoscenze tecniche che lo hanno accreditato nell’Olimpo spurio dei virtuosi al di fuori del mondo accademico, ha un nome e un cognome che fa subito pensare alla stirpe dei tangueros de pura cepa: Dante Amilcarelli. Salgan-Amilcarelli quindi, quattro manine agilissime che martellano i tasti di due pianoforti, tutte grazia e vigore, volando su una ritmica che li accompagna con mestiere, ma tenuta nell’anonimato dall’etichetta Philips che ha prodotto i due microsolchi per cui il progetto era nato: qualche fonte ufficiosa riconosce il pianista Oscar Alem, amico dei due, come il bassista di quelle sedute. L’accoglienza fu entusiasta, ma francamente, all’ascolto odierno se li spogliamo da un benevolo approccio sentimentale escono ridimensionati a peccato d’ingenuità. Se non altro per la confusione estetica che con esiti molto diversi mischia alla Discepolo, bibbie e termosifoni, passando dal jazz al tango, dalla musica brasiliana al folklore argentino, infilandoci in fondo anche uno scherzo di Mendelssohn. E uno scherzo malizioso aveva atteso l’Amilcarelli quando gli è capitato di incrociare quel buontempone di Astor Piazzolla, sempre pronto a inacidirsi di fronte alla competenza strumentale dei colleghi e quindi a farsi in quattro per ridimensionarli. Niente da fare, Astor doveva sottolineare la sua esclusiva superiorità, suscitando perciò una autorizzabile diagnosi di egocentrismo patologico. A dire il vero l’aneddotica ricorda quelli che hanno fatto diventare verde il beffardo maestro in varie epoche a partire da quella della sua tipica a metà anni quaranta. Nella fila dei bandoneones convocata da Piazzolla figurava Roberto Di Filippo che sembrava non avere limiti nella padronanza dello strumento, sciroppandosi di slancio le variazioni impossibili preparate sadicamente dal direttore. Frustrato da quel competitor che gli toglieva il sonno, riuscì a toglierselo di torno convincendolo, e non si sa come, a scegliere la carriera più rassicurante di oboista nell’orchestra del Teatro Colon. Infine era toccato al violinista post-Agri del suo quinteto, Fernando Suarez Paz. Lui gli suscitava un sentimento di invidia a causa della sua memoria mirandolesca che gli consentiva di imparare a memoria una parte dopo la prima lettura: per smontare questa infallibile dote Piazzolla gli prepara un brano virtuosistico per il violino intitolandolo Escualo, mettendoglielo sotto gli occhi alla sera per farglielo registrare alla mattina seguente. Ma non funzionò e il violinista lo suonò a memoria come al solito per il disappunto di Piazzolla che aveva cercato di inserire passaggi proibitivi e certamente ostili da tenere a mente per il loro intrico melodico. In mezzo ai due, come ho anticipato, è capitato il nostro Dante che ha osato suonare senza batter ciglio una prima stesura della cadenza introduttiva di Adios Nonino, come se avesse di fronte l’esercizio più elementare dello Czerny. E questo aveva infastidito parecchio Astor che durante la notte ha risistemato l’elaborato del giorno prima, con una farcitura di tranelli tecnici che sarebbero ragionevolmente costati uno studio preventivo con annessa diteggiatura. Non per Amilcarelli che la mattina dopo non ha alzato un ciglio e con una prima vista perfetta ha sbrogliato la matassa degli inghippi, commentando all’esterefatto Piazzolla, “bell’arrangiamento!”. Svincolandomi da questo pulviscolo divagatorio, per ritornare al Salgan che ci continua ad emozionare e stupire, vorrei toccare il tema dell’interesse marginale che ha mostrato per il tango cancion e quindi per i cantanti. La carriera del pianista è infatti essenzialmente strumentale, al di fuori delle vicende dell’orchestra che, volente o nolente, ha dovuto ospitare una passarella di cantanti. A questo proposito bisogna dire che Salgan ha assolto al suo compito di arrangiatore con la solita diligenza e compiutezza stilistica, legando alla sua orchestra due esordi, almeno in quella che con un parallelo calcistico era la serie A del Tango negli anni d’oro. Sto parlando di due cantanti straordinari e dalle caratteristiche molto differenti tra di loro. Edmundo Rivero, trovatore del lunfardo, che ha avuto l’onore di registrare con Salgan solo con un’orchestra d’occasione, dopo aver patito una chiara ostilità negli anni quaranta; dopo essere passato da Troilo con cui ha trovato la popolarità insieme alla perfezione registrando Sur; dopo essere conquistato il pubblico come solista, a tal punto che sulle copertine dei dischi finalmente registrati con Salgan, il suo nome è scritto con lo stesso corpo usato per il direttore. L’altro è Roberto Goyeneche che arrivava alla corte di Salgan con suo colectivo, lo parcheggiava, provava con l’orchestra e lo riprendeva per tornare in servizio: un semiprofessionista insomma. Rivero con quel timbro di baritono che suonava sgraziato; con un’attitudine a restare perfettamente sul tempo; con un fraseggio essenziale che lo avvicina a un Betinotti piuttosto che a un Gardel; con l’utilizzo di un vibrato vistoso; con un minimo ricorso alle dinamiche sonore. Goyeneche che mostra un fraseggio ancora da rifinire seppur già orientato verso la sua futura teatralità; che ha il piacere per le dinamiche con cui incornicia ogni singola parola di una letras, cogliendo scientificamente il peso specifico del suo significante; che ha il classico timbro di tenorino esibito con una voce potente e non ancora sottoposta alla prova di alcool, tabacco, infinite notti da bohemien, medicine che l’hanno trasformata radicalmente, influendo sul fraseggio sempre più libero e sul registro vocale sempre più corto che nelle interpretazioni mature acquista la lancinante drammaticità di un Chet Baker del tango. Nel 1957 Salgan scioglie l’orchestra. E’ ben conscio delle difficoltà concernenti al mantenere un organico con cui ha avuto solo un successo di nicchia, insufficiente per immaginarsi realisticamente al centro di un interesse discografico o di tutta quell’attività che sarebbe stata indispensabile nell’epoca che commercialmente è divenuta critica per il tango: d’altronde in questo quadro di resistenza ce la fanno con qualche agio solo una manciata di orchestre, tra le quali quelle di D’Arienzo, Troilo, Pugliese, Canaro e Di Sarli per quel poco che agli ultimi due resterà da vivere. Da allora, ripeto, la produzione di Salgan sarà esclusivamente strumentale anche quando i brani scelti potrebbero essere cantati perché, originariamente o in seconda battuta, hanno un testo: insomma viene in mente Mendelssohn e la sua ossimorica raccolta di Lieder ohne worte. Salgan affronterà il tango romanza, che sostanzialmente è la forma liederistica della cultura popolare di Buenos Aires, come Lieder senza parole, salvo qualche briciola: il progetto discografico con Rivero, l’Oratorio Carlos Gardel con Horacio Ferrer, il disco del 1973 Los Cosos de Buenos Aires con Miguel Montero e i macchiettistici ritratti di personaggi bonareensi tratteggiati da un paroliere che, come l’Amilcarelli, ti fa subito pensare alla stirpe dei tangueros de pura cepa: Roberto Lambertucci. Conclusa l’esperienza dell’orchestra, Salgan suona un po' in duo con Chiriaco Ortiz e un po' da solo nella boite Jamaica che divenne la culla di un leggendario duo nato per caso e durato fino al 2001. Ad affiancarlo in questa longeva collaborazione è Ubaldo De Lio che all’epoca aveva un difetto indigeribile per il pubblico del tango: suonava la chitarra elettrica, uno strumento classificato dai tangueros come esclusivamente adatto al jazz e, se mai, ai fracassoni del Rock&Roll che attiravano le nuove generazioni. Tra i due era nato spontaneamente un’interplay dove l’austerità del tango si scioglieva in leggerezza, gioco, spirito. Insomma un sodalizio musicale che smonta l’equivoco del tango come una musica esclusivamente associata al sole nero della malinconia e agli ardori purpurei della passione. Nel loro dialogo si riscopre il mitologema del tango, ma attraverso una lente dai raffinatissimi fuochi: quelli di una tecnica sopraffina che era sconosciuta dai tangueros arcaici e di un’eleganza che prende il posto del pittoresco ma conserva la picardia, custodita come quelle spezie segrete che nelle mani di un grande chef sanno rendere sublime la pietanza più semplice. Ritorna prepotentemente il profilo di Salgan come musicista neo-tradizionale. Grandissimo rispetto per le più vetuste e consunte composizioni delle prime decadi del ‘900 che hanno una sorta di funzione oracolare, ed insieme rifacimento con elementi ricorrenti utilizzati come marchio della casa. E non sono solo tocchi di un pennello decorativo che aggiunge arabeschi calligrafici con piccoli preziosismi guizzanti ma in fondo posticci. Non si tratta di pasticceria rococò, bensì di artifici che si aprono di continuo alla verità e intrecciandosi con lei, generano freschezza in orditi sonori di limpida trasparenza. Ne cito qualcuno: inserimento di accenti sincopati; utilizzo della destra del pianoforte anche nel registro acuto con un effetto per così dire da flauto se non da ottavino; simmetricamente, la sinistra si spinge sin nel registro più grave per allargare lo spettro sonoro dell’insieme; la chitarra inserisce dei cluster su certi accenti e introduce la ritmica dell’umpa-umpa perfezionata con l’intreccio del bandoneon nel Quinteto Real; gli strumenti si scambiano imprevedibilmente i ruoli. I due riescono perfino a meravigliare nel poker di tangos che sa canticchiare anche la nostra emblematica casalinga di Voghera, La cumparsita, El choclo, A media luz e il malaugurante Adios muchachos. Nel 1959 Salgan e De Lio sono impegnati in un breve ciclo di concertini presso il ristorante che si trova al nono piano dell’edificio dell’Automovil Club e subito dopo di loro è in calendario il gruppo di Enrique Mario Francini. Questa circostanza fa nascere l’idea di unire le forze formando dapprima un quartetto, insieme a Francini e al suo contrabbassista Rafael Ferro, quindi di aggiungere il bandoneon che sarà quello di Pedro Laurenz, uno dei patres dello strumento. Il progetto è di costruire un repertorio di tangos solo strumentali quali Mal de amores di Laurenz, Tema otoñal di Francini, qualche tema del leader, ma riprendendo soprattutto brani d’epoca con l’accortezza di uscire dal passatismo del “c’era una volta” per renderli adatti all’ascolto dei contemporanei. Come transitando dal canovaccio al copione attraverso le sceneggiature musicali di Salgan, create sulla falsariga delle caratteristiche già emerse nel duo con De Lio ed evidentemente più varie in materia di orchestrazione. Quest’ultimo racconta che i cinque si impegnarono in nove mesi di prove prima di partorire il debutto, con l’obbiettivo di suonare dal vivo a memoria, presentandosi con un guardaroba che rompesse i canoni legati alle orchestre di tango. Come annunciato, se lo spirito leggero, la modalità divertita, il repertorio ripescato quasi completamente tra i tangos più famosi e antichi, sono fondamentalmente ereditati dal duo, il Quinteto Real aggiunge la perfezione di tutti i suoi strumentisti, la difficoltà degli arrangiamenti che all’ascolto sembrano al contrario semplici e, soprattutto, l’annunciata novità nel marcare il ritmo con l’onomatopeico umpa-umpa che sostanzialmente è un effetto di controtempo sul marcato, tra la seconda e la terza pulsazione della battuta che viene conclusa con un arrastre sul quarto, fino al primo tempo della battuta successiva. E questo con un incastro in cui bandoneon, pianoforte e chitarra suonano, insieme o alternandosi, gli accenti in controtempo mentre sempre la chitarra questa volta con il contrabbasso si occupa dell’arrastre con cui termina la battuta. Questo calcare la mano sull’aspetto ritmico, unito alla sottrazione degli eventuali testi, non fa altro che sottolineare la natura ritmica delle melodie degli arcaici tangos rustici e tripartiti, come ad esempio in Julian di Edgardo Donato, declinato da un grottesco brio espressionismo, con un rosario dei deliziosi particolari inseriti, tra i quali spunta una riconoscibilissima trovata di gaiezza rebelaisiana. Mettendolo tra tante virgolette, quello che mi sento di assumere come epigramma o più modestamente come boutade paradossale, è che con il duo e con il Quinteto Real, Salgan ci fa pensare alla trasparente cristalleria di un esprit mozartienne. Il successo di quest’ultima formazione è internazionale e i cinque sono spesso impegnati in turnèe intercontinentali, con ben cinque voli verso l’Impero Celeste, dove Salgan è considerato una specie di divinità del tango e come omaggio a questo riconoscimento, nel 1963 pubblica con la Philips un album in cui orchestra alcuni spaesanti temi popolari nipponici in forma di tango o milonga(!). Fatalmente l’attività del quinteto si interrompe quando nel 1972 viene a mancare Pedro Laurenz. Riprenderà negli anni ottanta con Leopoldo Federico al bandoneon e Antonio Agri in sostituzione di Enrique Francini anche lui mancato nel 1978, quindi nella decade seguente il posto di bandoneonista è preso da Nestor Marconi e quello di violinista da Julio Perresini. Nel frattempo tra i contrabbassisti erano sfilati solo giganti: Rafael Ferro aveva lasciato il posto a Kicho Diaz che a sua volta lo aveva ceduto a Omar Murtagh e infine, in questo Nuevo Quinteto Real degli anni ’90, arrivava Oscar Giunta. A questo punto, dopo aver citato colleghi contrabbassisti che sono l’università del mio strumento nel tango, mi sento di raccontarvi come sono passato attraverso la tortura dell’inadeguatezza. Immaginatevi l’angoscia pietrificante che mi ha stretto, quando nel 1997 ho avuto l’opportunità di suonare sul patibolo del Club del Vino, e non posso descrivere meglio la proiezione che ha avuto per me quel palcoscenico, seppur abituatissimo alle tensioni che comporta “bello della diretta”, suggerito dal gergo televisivo. Al Club del Vino non bastava sottoporsi alla consueta impresa di suonare decorosamente e senza rete, magari aspettando il duende capriccioso che una volta viene a dar senso ai sacrifici della professione di musicista, e cento no. Al Club del Vino incombeva il peso di essere all’altezza del Tango con la T maiuscola. Quindi incurabile senso di inadeguatezza in un luogo frequentato settimanalmente da Salgan, mentre si percepiva ancora il profumo del suo dopobarba al tabacco a cui avevo fatto caso la sera prima, proprio lì dopo l’indimenticabile concerto con il suo Nuevo Quinteto Real. trattenni a stento lo scoppiare degli hurrà, lo sventolare del fazzoletto e il pestare dei piedi. Dopo ho avuto modo di congratularmi e di scambiare qualche parola con quell’incarnazione dell’amabilità che risponde al nome di Horacio Salgan. Un’amabilità che avevo intuito leggendo il garbo con cui aveva scritto il suo Curso de tango pubblicato nel 1991 e la minuziosa scrupolosità degli illuminanti esempi musicali che per la prima volte mettevano nero su bianco il punto di vista su cui si fondava il suo stile. Contrariamente a molti musicisti di tango dell’epoca, Salgan aveva formato con generosità una platea di allievi che si sarebbero rivelati importanti protagonisti del tango contemporaneo, interpretandolo secondo quella scuola preziosa ma sviluppandolo in seguito seguendo la propria personalità. Per fare quattro nomi conosciuti di allievi affinati al suo gusto: Nicolas Ledesma, Andres Linetzky, Sonia Possetti e non può mancare Cesar Salgan il figlio di Horacio, sufficientemente valoroso da aver ereditato il posto del padre nel Nuevo Quinteto Real. L’esprit mozartien del tango ha un futuro!
24 agosto 2020
Salgan, esprit mozartien
di Franco Finocchiaro
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