Stasera vi parlo di Sua Maestà Pepito Avellaneda, che quest’anno avrebbe compiuto 90 anni. Un grande ballerino, naturalmente, uno dei maggiori, e un padre costituente del tango moderno, un creatore e soprattutto un artista del tutto consapevole di sé, dei suoi mezzi e dei suoi compiti estetici. Per lui il tango era arte, doveva cioè continuamente evolversi e superarsi, “soffrire più in alto”, come diceva il milonguero trascendentale Manuel Kant. E se dal basso la statura di Pepito cominciava contemporaneamente a quella di Manu Ginobili, nessuno sapeva dove terminasse. Ventiquattro anni fa Pepito ha lasciato le piste terrene, eppure, anche nel tango rapallizzato di oggi c’è ancora una quantità di ballerini che ballano a loro insaputa i suoi passi e le sue sequenze, merletti coreografici pregiati, fatti di luce e leggerezza, ricamati di fino come pizzo valenciennes. Il suo ultimo palcoscenico è stato qui in Italia, al Teatro Municipale di Casale Monferrato, il 25 marzo 1996. Pepito era stato ingaggiato dalla Compañia Tangueros di Mariachiara Michieli e allora di Alejandro Aquino per ballare nel ruolo del Greco Kasidis in Milonga Boulevard, un balletto di tango tratto da un racconto di Julio Cortázar, un Romeo e Giulietta senza balconi o veleni intermittenti, ambientato in una milonga degli anni d’oro, musica di Osvaldo Pugliese suonata da Color Tango.
E si veda da qui Pepito, il grande artista che era. Il male gli aveva mangiato i polmoni, così come aveva mangiato il fegato a Troilo, nell’attrito di ventimila notti di tango. Respirava a fatica persino alla milonga, dove mai si sarebbe permesso di sminuire il rito pubblico con le sue fisime private. Un dottore gli aveva tolto le Parliament e prescritto il bonario Ventolín, per fargli credere che si trattasse di asma. Nonostante questo, nei lunghi mesi di prove di Milonga Boulevard, era stato una luce per le pareti non ancora tanghizzate del Torcuato Tasso, sempre perfetto, anche nei movimenti recitati che un balletto richiede. Ma la vera recita venne ordita intorno a lui. Enrique diciamo Hills gli organizzò una despedida senza fumo al Cuartito Azul. Appese cartelli indiscreti, serpeggiò tra i tavoli, bisbigliò negli orecchi degli estranei. Convocò Solo Tango TV e i suoi ballerini catodici per onorare il grande maestro con uno show da cafoni. Juan Fabbri, il padrone di tutti loro, promosse il nuovo canale e rese noto ad ampi gesti che il corso di milonga di Pepito sarebbe stato puntualmente disponibile, a dispetto del calendario e dei bollettini medici. Oggi i maneggi del marketing sembrano naturali, ma nel 1996 i milongueros un po’ se ne vergognavano. Sto parlando di quando la parola milonguero non era ancora stata usurpata da uno stile che non lo è. La manovra ideologica era appena agli inizi, milonguero era ancora sinonimo di resistenza al mercato, il milonguero rifiutava sdegnosamente le somme che nessuno si sognava di offrirgli.
Di fronte a quelle robette televisive, alle paillettes e a quegli esmokin infiammabili, Pepito sorrise come John Coltrane quando a Milano lo avevano portato alla Taverna Messicana ad ascoltare i mariachi brianzoli. “Avevo tre sogni - disse piano al microfono - uno l’ho realizzato, ballare con Copes. L’altro si sta per compiere, ballare nella compagnia di Mariachiara e Alejandro”. Il terzo non lo disse perché Zotto ingaggia solo chi non gli dà ombra. In realtà Copes lo aveva mortificato nella macchietta del Tano, con l’organetto e i baffoni posticci - c’è ancora una foto nel Gricel. Ma anche così Pepito aveva finito per rubargli lo spettacolo. In scena svettava come l’Himalaya, era un magnete di sguardi e applausi. Aveva un orecchio musicale prodigioso, i piedi fatati, velocità con acume.
Nelle prime settimane di tournée, la Compañia Tangueros provò le nuove coreografie all’insaputa del pubblico. Al debutto di Milonga Boulevard mancava poco e Pepito lo risparmiavamo per non stancarlo. Io andavo a prenderlo in albergo un quarto d’ora prima della sua entrata in scena. Lasciavo il teatro infuocato e mi rituffavo là fuori, nel mondo senza volontà né rappresentazione, sordo come latta, con i suoi personaggi goffi e mal riusciti. Pepito mi aspettava seduto sul letto, in doppiopetto nero, impomatato di Lord Cheselin. Contava su Paco Rabanne per mascherare le MS che si era procurato di nascosto. Mariachiara aveva scelto per lui La Payanca nell’arrangiamento di Pugliese, un tango che intimidisce anche i bravi. Pepito lo ballava con i passi ampi e incastonati del latifondista nei suoi domini, stringendo forte la sua Suzuki come fosse un cespuglio di fiori sull’orlo del precipizio. Poi si sedeva in quinta, tra i pompieri, a ritrovare il fiato. Gli piaceva guardare Mariachiara e Alejandro che ballavano la burrasca de Los Mareados. In quel momento, avrebbe dato qualsiasi cosa per uno yogurt di 12 anni, leggermente torbato. La sera di Casale Monferrato la burrasca diventò un uragano più forte del solito, gli applausi non finivano più. Mariachiara venne in quinta, prese per mano Pepito e lo riportò sotto il pulviscolo d’oro dei riflettori. Ci fu un boato, il Municipale intero si alzò in piedi, tutto era chiaro, ora. L’orchestra Color Tango scese in proscenio insieme agli altri ballerini, anche i tecnici applaudivano come forsennati dal backstage. L’Himalaya ringraziò con un sorriso dei suoi, inviando baci alla vicina volta celeste. Salutò il suo ultimo palcoscenico con lo stesso sguardo di rimpianto che qualche anno dopo avrei rivisto negli occhi di Matteo Salvatore al Concerto della Polvere di Vinicio Capossela, il suo ultimo concerto al Parco della Pellerina. Uno sguardo che ancora mi spezza in due. Pepito non debuttò in Milonga Boulevard, tornò a Buenos Aires per non farsi sorprendere sotto un osceno cielo diritto. Il personaggio di Kasidis lo facemmo ballare al Tete, che era suo amico e tanto bastava. Come scrisse Majakowskij di sé: io e il mio cuore non siamo vissuti fino a maggio, nella vita passata c’è soltanto il centesimo aprile.
Foto di Pino Ninfa “Mariachiara Michieli e Pepito Avellaneda, Buenos Aires, dicembre 1995"