Il tango t’aspetta, dicono. Te lo dice Troilo, te lo dice Goyeneche, te lo dice il vecchio milonguero. Il tango t’aspetta finché non hai vissuto abbastanza da arrivare a comprendere e ad amare persino Pescegatto con patate, un tango di ieri per il nostro domani odierno. Sì, il tango t’aspetta, come no, ma il vero lavoraccio tocca a noi, siamo noi che dobbiamo interpretare le ombre di questi sconosciuti, accendere il fuoco con la loro legna vecchia e bagnata. Se una Madonna di Raffaello mi commuove - diceva Carmelo Bene - il merito è mio e soltanto mio. Come se ciò non bastasse, c’è anche un tango che è lui a farsi aspettare, un tango che non ha vissuto abbastanza da arrivare a comprendere e ad amare noi, che in quanto a vita, non riusciamo nemmeno più a bere un Fernet senza ricorrere a un escamotaggio.
Vi do un esempio, il tango Marioneta del 1928, un tango a cui hanno subito messo i bastoni fra le ruote. Canaro, il primo a inciderlo, lo suona in tedesco, quadrato e marciabile. Lo chiamavano il Kaiser per qualcosa.
Charlo, con la sua voce così fotogenica, lo decurta come un budget, canta solo il ritornello.
Lo mandano poi a Gardel, che è a Parigi. Ne dà una versione eccelsa dal punto di vista canoro, ma erronea - e spero i gardeliani in ascolto mi perdonino - da quello poetico. Parla a una bambina come a un’amante fedifraga colta sul fatto. Ma Gardel in quel periodo è distratto, preso com’è dallo spillare soldi a Lady Wakefield che lui chiama rispettosamente la cicciona.
Nemmeno Floreal Ruíz, che nel giro di un anno lo registra sia con l’orchestra calcinculo di De Angelis, sia con il Dio Troilo, nemmeno lui sembra capire il senso di quel che canta e non lo canta nemmeno tutto, omette parti importantissime. Dobbiamo aspettare ottanta e passa anni perché Marioneta venga interpretato come si deve. Oltretutto da un’orchestra di ragazzini, gli Amores Tango. Dieci anni fa sono passati da Milano. Suonavano questi tanghi più grandi di loro con una trepidazione da prima notte fuori casa, o da prima volta al telo. Avevano decorato la scena con i palloncini, i festoni, le stelle filanti. Era dall’asilo che non vedevo tanta abilità. Alla fine mi regalano un cd duplicato in proprio. Ed ecco qui Marioneta, finalmente è arrivato.
Lo canta Osvaldo Peredo, un giovanotto che ha appena compiuto 82 anni, cioè quasi coetaneo di Marioneta. Un cantante da bar - che può essere un pregio, come sanno tutti quelli che sono stati dal Chino ad Avellaneda - un cantante diciamo non professionista. Peredo nella vita ha fatto molti lavori, tassista, calciatore, posteggiatore, indossatore, e anche cantante di tango con carriera in Colombia e Venezuela, un big in Japan, come la canzone di Tom Waits: grande dove non conta esserlo.
Grazie a questa paradossale joint-venture il tango Marioneta viene finalmente reso vero non dalla bravura, non dal mestiere, non dall’arte, ma dal combinato disposto di due diverse attese, dalla vita che ancora manca e da quella ormai passata, come le isole Azzorre.
I suoi autori sono Armando Tagini e Juan José Guichandut. Più che autori sono fornitori di servizi, scrivono canzoni e le vendono alle orchestre e ai cantanti che ne sono sprovvisti. Due bravi e puntuali artigiani. Tagini in particolare, è un gran poetizzatore. Si aggira per la realtà con uno stampo da budino in mano e ricava un tango da ogni storia che vede. Marioneta gli viene ispirato da una alternadora, cioè una ragazza che lavora nei cabaret, quelle che incoraggiano i clienti a bere. Io la conoscevo bene, dice Tagini, fin da quando frequentavamo lo stesso cortile. E proprio in quel cortile, comincia la canzone:
Aveva quella casa un certo non so che
un dolce incanto, una bellezza umile da patio coloniale
coperto in estate da un manto fiorito
intrecciato di glicine, vite americana e rose rampicanti.
Indicazioni botaniche precise, quelle di Tagini. Si prende il disturbo di descrivere un luogo che tutti, ma proprio tutti conoscono a menadito. E’ come descrivere l’Obelisco: un matitone bianco di pietra, in mezzo alla strada… Bastava dire patio. Il patio implica il manto fiorito. Che bisogno c’è dunque di fornire questi dettagli, il colore locale? Nel Corano, dice Borges, non ci sono cammelli. Ma qui il narratore non sta parlando a noi, sta parlando a sé stesso, sta ricostruendo quel patio nella sua memoria, lo sta ripassando. E infatti:
Mi sembra ancora di vederti
con la sottanina corta, i ricci spettinati,
in punta di piedi su una sedia, che guardavi rapita
i burattini che parlavano inglese, russo e francese.
Questo è magnifico: parlavano inglese, russo e francese, i burattini poliglotti, la magia, l’illusionismo, la grande illusione del teatro è in questa frase. In teatro dove tutto è finto e niente è falso. Eccoli qua i burattini:
Forza Donna Rosa!
E tu Don Panfilo, muoviti!
E quel burattinaio con la voce rauca
che spettacolo che ci faceva.
Tu avevi gli occhi estasiati
quelle marionette che saltavano e ballavano
infiammavano d’emozione
la tua anima irrequieta.
Don Panfilo è un personaggio classico, un bonaccione, una pasta d’uomo, la vittima ideale delle burle. E il burattinaio ha gli ovvi connotati di Mangiafuoco. Ora il narratore arriva ai giorni nostri, ossia ai suoi:
Gli anni sorridenti dell’infanzia sono passati
tutto è dimenticato, anche i burattini.
Quante lusinghe, quante promesse ti avranno fatto.
Te ne sei andata di casa, non si è mai saputo con chi.
Con il loffio “lusinghe” ho tradotto la parola piropo, che invece è bellissima, ha dentro il fuoco, pyro. “Non si è mai saputo con chi” significa che il narratore è rimasto, tiene a farci sapere che lui dal barrio non se n’è mai andato. Ora viene la quartina più importante, puro gergo teatrale, bastidores decorado, proscenio:
Là dietro le quinte, ridicolo e meschino
è venuto giù il fondale sempliciotto della famiglia
adesso sul proscenio di un frivolo destino
sei tu la marionetta che balla senza fermarsi.
Ciò che si è arreso, che è crollato, che ha ceduto, è la messa in scena del focolare domestico. Ora che quel fondale ridicolo e meschino non c’è, ti accorgi che sei tu la marionetta manovrata dal destino. Ma fate caso a come Osvaldo Peredo canta queste strofe: in realtà sta ancora parlando a sé stesso, di sé stesso. E infatti quando ricompaiono i burattini, sembra salutarli, riconoscerli, salta e balla insieme a loro.
Ehilà Donna Rosa,
Don Panfilo, come va?
Il tango viene spesso definito, con ragione, un melodramma in tre minuti. Il melodramma è una macchinazione, una congiura, un complotto ordito da orchestra, coro, cantanti, ballerini, comparse, figuranti, costumisti, scenografi, tecnici, elettricisti, trovarobe, facchini, sarte, attrezzisti, insomma, una massa enorme di congiurati che si mettono d’accordo, che si preparano, fanno le prove perché a un dato momento ti sia conficcata la spada nel cuore. Una macchinazione gigantesca per farti credere che una donna di novanta chili stia morendo di tisi in una povera mansarda di 600 metri quadri, finestratissima, con doppio affaccio sui tetti di Parigi e su Piazza della Scala. Così quando ti arriva addosso la valanga dell’orchestra tu senta tutto il dolore del mondo. Oppure tu ti sciolga in un oceano di lacrime aspettando insieme a Butterfly in una casa che profuma di pesco un tizio di nome Pinkerton.
A volte un modesto, semplice tango riesce a ottenere tutto questo in tre minuti, con un’economia di mezzi esemplare, da spending review. In fondo Marioneta dice una cosa che hanno già detto Sofocle, Calderón, Shakespeare. Il mondo non è che un palcoscenico, la vita non è che una recita. Siamo tutti marionette che ballano senza mai fermarsi. E soprattutto non sappiamo che farcene della realtà, sotto sotto preferiamo venire rapiti, accaparrati dai sogni e dalle illusioni. Il tango migliore non è quello che ti aspetta, ma quello che ti accaparra.
Bene, cari amici di Radio Tango Macao, ora devo lasciarvi. Ho una conference call con Brighella e Pantalone.

Amores Tangos feat. Osvaldo Peredo - Marioneta