Lo confesso, ho un debole per Fresedo, l’orchestra dei ricchi epuloni. I tanghi di Fresedo per me sono come le vetrine della Recoleta, tanghi scintillanti, lussuosi, damascati d’avorio e vecchi argenti, che rispecchiano il mondo favoloso dei meritevoli e le meraviglie di una società organizzata e funzionante, con i suoi facili tram e le brioche di due tipi. Tanghi dalle volumetrie eleganti e panneggi melodici tempestati di scaramazze ritmiche, che hanno mosso su pianciti in carrubo intere dinastie di piedi altolocati. E proprio là, in quei saloni inaccessibili, accanto a un significativo candelabro Taunus a motivi fiorili, ecco la sfilza dei suoi cantanti ebbri di champagne Aconcagua. Tutti cantanti da giacca, ovviamente. Tra loro, il mio favorito: Héctor Pacheco, cintura nera di buone maniere vocali, tutto chiacchiera e distinzione.
Fresedo y Pacheco: trenta tanghi incisi tra il 1950 e il 1955. Non ci sono altri tanghi che mi facciano ricordare quanto i loro i bei tempi del vino e delle rose, quelli che nessuno, in nessuna epoca, ha mai riconosciuto mentre si verificavano.
Ma va anche detto che l’orchestra di Osvaldo Fresedo è la più longeva di tutte, la più prolifica, 1250 incisioni, eppure alla milonga è spesso inchiodata a una manciata cingolata di pezzi. La lunga vita di Fresedo, invece, coincide con quella del tango. Negli anni ’20 fornisce le prime cromature di arpe e metallofoni ai macinini della Guardia Vieja, nell’epoca d’oro produce dei congegni mirabili che sono uova Fabergé, fino al Piazzolla capitonné degli anni 50. E riesce pure a strappare a Varela l’Oscar marrone del cattivo gusto, con quel portentoso capolavoro del kitsch mondiale che sono i Dieci Comandamenti tanghizzati. Quale altra orchestra ha avuto Dio come paroliere?
Ma torniamo a Héctor Pacheco che in realtà si chiama Lino Inghiramo. La sua carriera di cantante di tango inizia male, con una gaffe. Sceglie di venire al mondo nella provincia campagnola di Cordoba, lontano da Buenos Aires, che è l’unico luogo di nascita ammissibile per un cantante di tango. Lui però non si perde d’animo, suona il violino e studia canto. E’ un tenore leggero, molto intonato, una voce vellutata, carnosa, da pesca nettarina, sempre amichevole anche nel repertorio truculento di quegli anni. Il suo faro è Agustín Magaldi. Lo imita in tutto, gli copia persino il modo di sputare. Vince il concorso voci nuove della Baudo Concimi, il che vuol dire profumino di gloria e un ingaggio retribuito alla radio Cerealicola.
Ma il ragazzo è ambizioso. Estorce una raccomandazione a un cugino di D’Arienzo e s’avventura a Buenos Aires per l’audizione davanti al Re. Respinto con disonore, Re D’Arienzo gli fa anche il pippone, non sta bene imitare gli altri. Decide di rimanere ugualmente a Buenos Aires. Si fa le ossa cantando nei cinema, nei cosiddetti numero vivo, il crudele avanspettacolo dove ti tirano il gatto morto. Ciò nonostante non perde l’uso del tatto e la cordialità. Canta insieme alle sorelle Silva, dette le Due Sfogliatine. Sono loro a incoraggiarlo, a dirgli “intanto cambiati il nome, un cantante di tango non può chiamarsi Inghiramo”. Sceglie un nome aristocratico, da latifondista: Héctor Pacheco, che in Italia suonerebbe come Ettore Farnese o Ettore Torlonia. Sotto questo nuovo blasone vince il concorso di Radio Argentina, patrocinato nientemeno che dalla Sartorie Inglesi Garcia y Saponaro. Forte del successo va a proporsi da Osvaldo Fresedo. Respinto anche stavolta. Lui come niente: canta alla radio, in teatro, anche con orchestre buone, si fa uno stile personale e riconoscibile, un’impronta signorile.
Poi finalmente il colpo di fortuna. E’ a Bariloche per un ingaggio. A cena c’è anche Fresedo. La serata si mette bene, l’alcol intenerisce gli animi, lo fanno cantare. Fresedo, che ovviamente non lo riconosce, lo scambia per un fenomeno locale e gli dice il classico: giovane, se passa da Buenos Aires - che prego notare è a 1600 chilometri da lì - mi venga a trovare. Non se lo fa dire due volte. Tornano probabilmente sullo stesso treno. Fresedo non fa neanche in tempo a metter giù la valigia che gli suonano al campanello: sorpresa, sono io. Questa volta lo prende.
L’orchestra si sta rinnovando, c’è una task force di sgobboni, Lalo Scalise al pianoforte, Roberto Perez Prechi al bandoneón e il diciottenne Roberto Pansera che suona il bandoneón e soprattutto scrive gli arrangiamenti. Pansera idolatra Astor Piazzolla che l’ha aiutato facendolo studiare con Ginastera. Una borsa di studio l’ha portato in Italia a perfezionarsi all’Accademia di Santa Cecilia. Pansera è un vulcano, i suoi arrangiamenti pieni di idee. Fresedo lascia fare, controlla le guarnizioni. Del resto è il 1950 in pacca, ha appena comprato il suo club personale, il Rendez Vous. Ne ha un altro a Mar del Plata, il Tagliamare. E passa solo metà del suo tempo al suolo perché ha il brevetto di pilota civile e un aeroplano di proprietà. In sintesi, nell’orchestra c’è una grande libertà espressiva e questo si sente.
Il tango di stasera appartiene a quel periodo felice. Si chiama Sosteniendo Recuerdos. E’ scritto da due pesi massimi, Homero Manzi e Lucio Demare. E’ incredibile, visto la caratura degli autori, che venga inciso soltanto una volta e soltanto da questa orchestra. E’ un tango cinematico, manzoniano, ora vi dico perché.
Osserva Franco Fortini che i Promessi Sposi, il nostro romanzone nazionale, comincia con uno spettacolare volo d’elicottero. Ecco il famoso lago, i seni, igolfi, il promontorio, l’Adda, il Resegone, la giogaia, i cocuzzoli, i pendii, i poggi, i valloncelli, le erte. Poi l’elicottero si abbassa, ecco le spianate, le ghiaie, i ciottoloni, i campi, le vigne, i casali, i boschi e infine le strade, le stradette, il borgo, il castello eccetera. E alla fine zoom su quel puntino nero: è il curato. Due figuri lo stanno aspettando.
Con identica planata panoramica comincia Sosteniendo Recuerdos. Il pilota ce l’abbiamo. Si sente il flap flap flap dell’elicottero e poi subito l’estasi del volo, il tuffo nelle nuvole a porcello, il cielo, la luce, l’orizzonte, e là sotto la pampa smisurata che è come l’oceano di Stevenson. Immaginiamo gli arbusti, gli acquitrini, i solenni ombù, i succulenti bovini. Il tutto immerso in questa gioia aeronautica. Secondo la ricetta di Hemingway, i personaggi si fanno con quel che avanza del paesaggio, e allora zoom su un rancho e qui appare il protagonista, il nostro puntino nero. Lasciamo ora la parola a Héctor Pacheco che gli dà subito del tu, da buon cantante confidenziale:
Mentre contempli il pomeriggio
all’ombra del rancho
sembri solo un’anima
che sta fumando
Hai rughe in faccia
le dita rattrappite
gli occhi hanno perso il colore
a forza di guardare
Che rispetto, che discrezione in questo approccio. Pacheco gli risparmia persino le erre motoristiche dei cantanti di studiato accento arrabalero. E prosegue
La tua Giacinta riposa
nella casa del cielo
i tuoi ragazzi si sono fatti uomini
e gli uomini prima o poi se ne vanno
Il nome di Jacinta non è un nome cittadino. In tutto il tango si usa una terminologia specifica, tecnica potremmo dire, che designa con precisione gli oggetti e le attività che man mano si materializzano ai nostri occhi. Non dimentichiamo che anche Homero Manzi è nato in mezzo all’atmosfera. L’immagine che viene ora è psicologica, dà un’occhiata all’interno, ma sempre con discrezione.
Ti sono rimaste solo le ossa
a sostenere i ricordi.
Accarezzi le briglie
e aspetti il finale.
Vi prego di fare caso alla delicatezza, al pudore di “huesos”.
Vecchio gaucho
se ti vedessero come allora
galoppando con dietro la tua ragazza
venti primavere e un amore
Se ancora ti vedessero
solco, reticolato, pane e mate
puledri lazo mandrie e sentieri
tutto braccio e cuore
Vecchio gaucho
i venti della Pampa hanno fatto molte leghe
per scorticare il tuo volto
di fango screpolato
Bellissima l’immagine del vento che viene da molto lontano, fa molte leghe, come un viaggiatore, percorre tutta la prateria fino alla
faccia di questo uomo.
Vecchio gaucho
i tempi duri, il sole forte
le lunghe notti gelide
hanno scolpito la tua vecchiaia
L’elicottero riprende il volo e si allontana flap flap flap verso un tramonto da placido west, quasi disneyano, in diminuendo. La vita è ancora una volta altrove. Il tango riempie, il tango svuota e il cuore di chi vi parla è come una spugna strizzata. Sì, ragazzi, non lo dico per vantarmi, ma sono stato vecchio anch’io.
4 maggio 2020
Tutto chiacchere e distinzione
di Marco Castellani
Radio Tango Macao non vive di pubblicità. La creazione dei contenuti richiede un grande impegno. Se apprezzate il nostro lavoro, vi chiediamo di sostenerlo con una piccola donazione.